Pagina:Don Chisciotte (Gamba-Ambrosoli) Vol.2.djvu/27

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capitolo i. 17

pure un gran cieco colui che non vede per la tela di uno staccio! Ed è egli possibile che non conosca vossignoria come i paragoni che si fanno da ingegno a ingegno, da valore a valore, da bellezza a bellezza, da prosapia a prosapia, sono sempre odiosi e male accetti? Io, signor barbiere mio, non sono Nettuno il nume delle acque, nè pretenderei di essere tenuto per savio se tale non fossi, nè altro fo che affaticarmi per far conoscere al mondo l’errore in cui giace di non rinnovare a proprio vantaggio il felicissimo tempo in cui campeggiava l’ordine della errante cavalleria; ma non merita di godere sì eccelso bene la depravata età nostra com’era fruito nei tempi nei quali gli erranti cavalieri pigliavano sopra di sè la difesa dei regni, la protezione delle donzelle, il soccorso degli orfani e dei pupilli, il gastigo dei superbi e l’esaltamento degli umili. La maggior parte dei cavalieri d’oggidì fanno più vistoso sfarzo dei damaschi, dei broccati e delle ricche tele di cui si vestono, che della maglia di cui dovrebbero armarsi: non v’è più un cavaliere che dorma pei campi esposto al rigore del cielo, e armato da capo a piedi: più non si trova chi senza levare i piè dalle staffe, appoggiato alla sua lancia si contenti di dormicchiare a foggia degli antichi cavalieri eroi: nessuno oggimai più si trova che uscendo di questo bosco si metta per quella montagna, e di là si conduca alla infeconda e deserta spiaggia di un oceano, il più delle volte procelloso e agitato, ove trovando un picciolo legno senza remi, vele, alberi e sarte, entri con intrepido cuore, abbandonandosi alle onde implacabili del mare profondo che ora lo innalzano alle stelle, ed ora lo cacciano giù nell’abisso; ed (affrontando la implacabile burrasca) si trovi scostato dal luogo del suo imbarco per tremila leghe; sicchè poi trasportato in rimote e incognite terre, cose gli accadono degne di essere scritte non in pergamene, ma in bronzi. Ora la infingardia trionfa della diligenza, l’ozio del travaglio, il vizio della virtù, l’arroganza del valore e la teorica della pratica delle armi che furono e risplendettero nell’età dell’oro e dell’errante cavalleria. E chi fosse di contrario avviso mi risponda per un poco: chi fu mai più onesto e valoroso del celebre Amadigi di Gaula? chi più assennato di Palmerino d’Inghilterra? chi più accomodato e manieroso di Tirante il Bianco? chi più galante di Lisvarte di Grecia? chi più feritore e ferito di don Belianigi? chi più intrepido di Perion di Gaula? chi più affrontatore di pericoli di Felismarte d’Ircania? chi più sincero di Splandiano? chi più precipitoso di don Zeriongilio di Tracia? chi più bravo di Rodomonte? chi più prudente del re Sobrino? chi più ardimentoso di Rinaldo? chi più invincibile di Roldano? e chi più avvenente e

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