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RAGIONAMENTO SETTIMO

FATTO AI MARMI DI FIORENZA.

LO STUCCO

academico peregrino.

Faccino quanto vogliano e scrivino come piace loro e prose e versi, che, a mia scelta, vorrei sempre udir rime. In quelle io ci sento una dolcezza, un’armonia, un certo che di suono, che, ancóra che le non sieno di quelle autentiche e di quelle forbite forbite, io sto ascoltare come un porcellin grattato. Poi che io sono a Fiorenza, penso che avrò la grazia d’udir rime; e la ragione è questa, che Dante compose rime e fu fiorentino, Petrarca rime (e che rime!) e fu fiorentino, e il Boccaccio prose e rime e fu fiorentinissimo; poi, ciò che si vede scritto de’ fiorentini (e v’ho posto piú di due volte cura), o sia in lettere di mercatanti o di altra piú alta o bassa gente, io le leggo tutte in versi, se ben le sono in prosa: «Carissimo e dolcissimo fratello, Questa sará per avvisarti come, A dí dieci di giugno, che fu ieri, Si partí tuo fratel per Pisa in fretta E m’impose ch’io ti scrivessi un verso, Avvisandoti che le sue faccende Son succedute come egli voleva; E ti prega che, súbito veduta Questa, ti parta di Mugello, e venghi Ad aver cura di bottega: a Dio. Di Firenze, a di undici di giugno Nel mille cinquecen cinquantadua. Tutto al servizio vostro, il vostro Bigio». Le son gran cose veramente queste, a scriver versi senza pur pensarci! — Oh e’ non son di quegli che sien buoni! — O sien buoni o cattivi, faccin eglino; e’ son pur versi, e si vede