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260 | i marmi - parte seconda |
s’armâr di sdegno spaventoso e forte,
ed i demoni uscîr fuor d’ogni tomba
credendo che ’l gran dì suoni la tromba.
Giuseppe. Non leggete piú, ché viene in qua gente e non voglio che alcun vegga cotesto libro.
Baccio. I poeti nascono: acconciatela come voi volete. Che cosa è questa del Petrarca sì bene scritta?
Giuseppe. Egli è il suo Privilegio, tradotto di latino in vulgare. Vedete se la poesia è cosa degna! E se voi lo leggete, leggerete una bella cosa: e ascolti chi vuole questa, perché avrò piacere che ciascuno oda.
Baccio. La traduzione non è giá molto buona, a quel ch’io veggo: in fine, e’ non giova aver fatto assai traduzioni; egli bisogna intender la forza della lingua e sapere il modo da ridurla in toscano e non far le cose per opinione.
Giuseppe. Un dottor di legge l’ha tradotto.
Baccio. Se fusse di teologia, non che di legge, e usasse i vocaboli e i numeri come io ci veggo in questa, egli non può essere se non poco avveduto a non sapere esprimere in vulgare ciò che colui volle dire in latino e disse.
Giuseppe. Leggete pure e lasciate dare il giudizio ad altri di questo, perché voi altri fiorentini siate parziali.
Baccio. Per la mia fede che avete ragione: noi ce ne curiamo assai; io mi rido che ciascuno dice i suoi vocaboli proprii da quegli che trova nel Boccaccio in fuori.
Giuseppe. Se non sa i vostri, qual volete che egli dica?
Baccio. Io ve la do vinta: lasciatemi lèggere, questo benedetto birbilegio.