Pagina:Drigo - La Fortuna, Milano, Treves, 1913.djvu/278

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Biancofiore toccò colla cravache il collo del suo cavallo che scattò sui piedi posteriori con un balzo e un nitrito.

— Non ti sono grata affatto! — mormorò ella fra i denti, curvandosi sulla criniera.

— Questo non importa! — rispose Elmìr, e, afferrato per la briglia il cavallo di lei che sbuffava e tremava in ogni fibra, l'obbligò a fermarsi e avviluppò la fanciulla col suo mantello. Ella fremeva.

— Sono sotto un giogo! sotto un giogo! Egli crede di potermi dominare, crede che io abbia bisogno di lui, della sua difesa, della sua protezione, assume delle arie da padrone, mi fa soffrire!... Tutto questo non può continuare: non voglio che continui!...

E da quel momento non tralasciò occasione per ribellarsi al cugino, per cercare di imporgli la sua volontà, per fargli capire che la sua indipendenza non ammetteva limiti. Elmìr cedeva molto frequentemente e con molta gentilezza quando si trattava di pericolo esclusivamente suo, quando invece Biancofiore proponeva follie ed imprudenze che avrebbero esposto lei pure, era inflessibile. Un po' scherzando, un po' seriamente, egli rispondeva alla fanciulla:

— Tu mi sei stata confidata sana e salva e sana e salva ti riporterò!

— Ha paura! — mormorava fra sè Biancofiore. E tosto incominciava a intonare il panegirico di Oláf, del suo coraggio, delle sue lotte, delle sue vittorie. — Quello è un eroe!...