Pagina:Drigo - La Fortuna, Milano, Treves, 1913.djvu/285

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quella che doveva segnare la fine del pellegrinaggio: verso la reggia splendida e celebrata del Sire d'Ayèban che aveva sette figli maschi, l'uno più bello, più intelligente, più valoroso dell'altro.

— Fra tre giorni saremo a Kartùzar! — disse Elmìr smettendo di cantare. — Dicono che quella città sia la più bella d'Oriente, la perla dell'Asia, e che il giardino della reggia, il celebre Giardino Rosso, sembri un giardino incantato.

— Tu hai un ritratto, — rispose Biancofiore. — Tu hai un ritratto, e lo baci ogni sera. Di chi è quel ritratto?

Elmir tacque e guardò lontano, forse la cerulea linea dei monti in fondo all'orizzonte, forse l'airone che in lenti giri fendeva l'aria.

— Di chi è? — insistette Biancofiore.

I begli occhi di Elmìr si erano fatti più seri, il profilo di lui diritto e imperioso si era improvvisamente fatto più duro. Ed egli ancora guardava lontano.

— Perchè non vuoi dirmelo? — ripetè la fanciulla. — Perchè non vuoi dirmi che è della tua innamorata?... Forse io la conosco, se mi dici il nome!... Parla: perchè ne fai mistero?... È forse brutta, o di condizione troppo modesta?... Dimmi, insomma, dimmi! — esclamò ella in tono di supplica insieme e di comando.

Elmìr taceva.

— Allora ti dirò io molti nomi di donne, donne del nostro paese!... — disse Biancofiore. — Ma prima.... mettimi sulla buona strada, ti