Pagina:Drigo - La Fortuna, Milano, Treves, 1913.djvu/51

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— Folco non dorme in casa da tre notti, — rispose Rosa tranquillamente, — e se tornerà stanotte darò il bambino a Teresa. Lasciatemelo! — supplicò. E c'era tanto ardente fervore nella sua preghiera che il conte Ademaro e Giovanna si lasciarono intenerire. Il loro parere prevalse.

Uscirono tutti, Giovanna ultima, dopo aver posato le tazze sul comodino e aver raccomandato tre volte alla puerpera di non dimenticarsi di bere il caffè e il brodo durante la notte.

Dopo la terza raccomandazione augurò la buona notte a lei e al fantolino, abbassò la veilleuse, e se ne andò.

Appena fuori s'incontrò, e per poco non urtò, nel contino Folco che, con zampe di velluto, traversava frettolosamente la stanza da toilette avviandosi verso le scale. Era in smoking, colle basette arricciate, un colletto inverosimile, le scarpine di vernice.

— Dove va, così bello? — domandò la vecchia donna senza tanti preamboli. — Non entra a salutare la contessa e il «piccinin»?

Folco alzò le spalle.

— Il «piccinin», il «piccinin», il «piccinin»! Ne ho un'indigestione io del «piccinin»! Lo amo, lo venero, e lo rispetto, ma qui è diventata una mania, non si può più vivere! Non si parla, non si vive, non si respira che pel «piccinin»! Avete tutti perduto la testa?!! Di' a mio padre, se è lui che t'incarica di farmi delle ambasciate, che io mi sono sposato per me, non per il «piccinin»! che non ho l'albero di traverso, io, come lui,