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menta di case immense, e le tirava su alla peggio, con grave pericolo degli operai e con danno dell’arte.
Per questo erano frequenti lo disgrazie. In via Volturno rovinò una volta e vi rimasero morti sette lavoranti, e uno gravemente ferito. La disgrazia commosse i muratori, tutti si lagnarono, ma non per questo si pose un rimedio alle affrettate costruzioni, perché la sete del pronto guadagno padroneggiava la gente. Chi arricchiva allora davvero erano i Romani, proprietari delle vigne, degli orti e dei terreni da pascolo; i costruttori che già speculavano sulle case e le rivendevano spesso con lauti guadagni, facevano anch’essi i signori e maneggiavano molto danaro, ma contraevano nello stesso tempo impegni fortissimi con le banche, che li aiutavano con grande facilità. Ma nessuno ammetteva la possibilità di un disastro finanziario. L’oro tornava in Italia dopo l’abolizione del corso forzoso, il Governo concludeva un vantaggioso trattato di commercio con la Francia fino al 1887, si credeva che tutta l’Italia fosse sulla via della prosperità e che di quella prosperità soprattutto dovesse risentirne Roma ampliandosi, abbellendosi, facendo affluire qui industriali e capitali.
In quel tempo non pareva neppure un’utopia l’esposizione mondiale e la gente più assennata prestava il suo appoggio al signor Cesare Orsini.
Per dare una idea dei sogni cui tutti si abbandonavano riassumerò un progetto del quartiere del Testaccio, presentato dalla seria ditta costruttrice Marotti e Frontini al municipio. Essa aveva costruito già la linea del tramway da San Paolo e ideava di prolungare quella fino alle Tre Fontane. I Marotti e Frontini, subentrati nei diritti e negli obblighi del contratto fra la ditta Picard e il municipio e dopo aver comprato molti terreni di proprietà Torlonia, presentava un progetto che comprendeva una stazione ferroviaria, i magazzini generali per la conservazione delle merci e delle derrate, il quartiere per le abitazioni operaie, le aeree per gli stabilimenti industriali privati, per i depositi dei legnami e del petrolio, e il progetto per la costruzione del Campo Boario e del Mattatoio.
Con questi grandiosi criteri si procedeva dovunque; pareva che ai Romani d’oggigiorno fossero saliti al cervello i fumi dell’antica grandezza e che essi volessero la Roma moderna rivaleggiasse per ardite imprese con l’antica.
Anche il vecchio Sferisterio, teatro di lotte incruente, di scommesse fra giocatori di pallone e di assemblee popolari, fu demolito. Il principe Barberini lo vendè al signor De Dominicis, il quale vi edificò i palazzi che fronteggiano il ministero della guerra, che era in costruzione in quel tempo. Si costruivano pure le case che vanno fino a quello delle Finanze, quelle di molte strade del Macao, di piazza dell’Indipendenza; quelle di Prati più prossime al Ponte di Ripetta e quelle di via della Polveriera.
La via Nazionale era stata selciata con grave spesa; si lavorava ai grandi collettori per lo scolo delle acque, si riallacciava Roma con Albano e con Anzio, si costruiva il tramway per San Giovanni, ferveva la discussione sul piano regolatore, sul punto ove doveva sorgere il Palazzo di Giustizia, e il Genio militare stabiliva l’area che doveva occupare la piazza d’armi. Facevasi strada anche nel pubblico l’idea di avere un teatro drammatico stabile, e alcuni signori fra i quali il marchese Theodoli e don Giovanni Borghese riunivano a quello scopo un capitale ingente.
L’on. Ruspoli dal canto suo faceva una questione d’amor proprio che Roma avesse nel 1882-83 la promessa esposizione artistica e per conseguenza il palazzo delle Belle Arti; l’on. Baccelli metteva mano ai restauri del Portico di Veio e prima che l’anno terminasse si apriva nei locali del Museo Agrario la mostra dei bozzetti per il monumento a Vittorio Emanuele, che dette un risultato negativo.