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Il 21 febbraio l’on. Sonnino, ministro delle Finanze fece l’esposizione finanziaria del 93.94 annunziando un disavanzo nel bilancio di 77 milioni. Egli prevedeva che in quello del 94-95 il disavanzo sarebbe cresciuto fino a 155 milioni per le spese ferroviarie. Annunziò varie rimanipolazioni d’imposte, l’aumento della tassa di successione, di quella che colpiva gli spiriti, di due decimi sulla fondiaria, e finalmente i due aumenti che dovevano più sgomentare la Camera e il paese: quella di 5 centesimi sul prezzo del sale, e l’imposta sugli interessi dei debiti dello Stato, dei Comuni e delle Provincie portato al 20%, il che significava una riduzione del consolidato dal 5 al 4%

Il Ministro delle Finanze proponeva pure l’abolizione del dazio governativo interno sulle farine, e l’aumento di quello sui grani, la creazione dei biglietti di 2 lire e la coniazione di 12 milioni di moneta di nikel. Con tutto questo rimanevano ancora scoperti più di 42 milioni, ai quali intendeva rimediare con ulteriori economie sui bilanci.

Il quadro della situazione, come egli disse, era fosco, ma le tinte non ne erano esagerate ed assicurò che approvando i provvedimenti da lui proposti, non impegnandosi in nessuna nuova spesa, riordinando i servizi militari e civili, si sarebbe non solo giunti al pareggio, ma questo sarebbe stato assicurato per un sessennio.

Nessun ministro aveva mai avuto, come il Sonnino, il rude coraggio di sviscerare la verità nuda e cruda come egli aveva fatto, e di affrontare l’impopolarità come egli avevala serenamente affrontata. Peraltro in paese e all’estero si capì che esponendo quel quadro desolante delle nostre finanze, egli aveva ubbidito alla sua coscienza retta di cittadino e di ministro, e che se proponeva gravi rimedj, voleva dire che i mali erano pure gravissimi, e così la esposizione finanziaria non produsse nessun effetto disastroso; anzi dimostrò che chi avevala fatta nutriva il fermo proposito di rimediare al deficit, attivando un vasto programma.

In quella stessa seduta l’on. Cavallotti tentò di trascinare il presidente del Consiglio in una discussione sugli intendimenti del Governo rispetto alla situazione extraparlamentare creata dalla sospensione delle guarentigie costituzionali in alcune parti d’Italia, citando casi precedenti. L’onorevole Imbriani, che in quel tempo non taceva un momento, disse: «Crispi allora era diverso,» e il Crispi risposegli: «Allora si trattava di fare quell’Italia, che ora si vuol disfare». In queste parole, ripetute alla Camera cento volte, stavano le accuse dell’estrema Sinistra e la difesa del Crispi. Quella rimproveravagli di essersi cambiato da rivoluzionario in tiranno; ed egli, forte dell’appoggio dimostrava che non desiderio di potere, ma necessità di proteggere l’Italia, lo aveva costretto ad applicare lo stato d’assedio in Sicilia e in Lunigiana.

Dopo l’esposizione finanziaria il presidente del Consiglio chiese i poteri discrezionali per procedere alla sollecita riforma dei servizi militari e civili, e propose la nomina di due commissioni, una di 15 deputati e l’altra di 9, per esaminare i progetti. La Camera approvò la sua proposta a grande maggioranza.

Il 28 febbraio, discusse che furono le numerose interpellanze, dalle quali il Crispi era continuamente bersagliato, concluse, svolgendo anche meglio la sua difesa:

«Chi ama teme; ed amo molto e temo molto per la mia patria benedetta. L’Italia deve affermarsi e consolidarsi. L’unità è troppo recente perché non si scorga ancora la cucitura dei sette Stati, erminata appena ieri. Cosi come nel 1866 io invoco un ritorno benefico ispiratore alla fede unitaria come allora e in circostanza che giudico altrettanto solenne, dico che dobbiamo stringerci intorno alla Monarchia, simbolo di unità.