Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/165

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parte prima. 157

Bettina. Certo, me l’ha detto oggi Sibilla. Ella ci è finalmente incappata. Ecco come finiscono con la lor boria.

Ghita. Che è ciò?

Bettina. E’ puzza! Quando desina ella dà da mangiare a due.

Ghita. Ohimè!

Bettina. Le sta bene. Da sì gran tempo impazziva dietro quel rompicollo! Seco alle passeggiate, seco a’ diporti in contado, seco ai balli; e da per tutto voleva essere da più dell’altre; ed egli la veniva ammorbidendo col regalarla sempre a pasticcetti, vino e altro. Ella si paoneggiava stimandosi un gran che di bellezza, ed era ita sì innanzi che non si facea ponto vergogna di accettare ogni suo presente. Ma dàlle, dàlle, moine, carezze, baci, e il bel fiorellino fu colto.

Ghita. Povera figliuola!

Bettina. Le ne hai compassione tu! Quando la sera noi stavamo a filare, egli non c’era verso che nostra madre ne lasciasse andar giù. Ma ella si stava soavemente col suo bel giovane in sulla panca a lato alla porta, e nell’andito allo scuro, e le ore eran sempre corte troppo per essi. Ora dovrà umiliarsi, e la vedremo andare alla chiesa col camicione delle penitenti.

Ghita. Egli certo la sposerà.

Bettina. Sarebbe un bel pazzo! Per un giovane lesto com’egli è, è buona stanza per ogni paese. Egli si è già dileguato.

Ghita. Non istà bene.

Bettina. E mettiamo ancora ch’ella lo riavesse,