Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/171

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parte prima. 163

Popolo. Il figliuolo di tua madre.

Margherita. O gran Dio! che disgrazia!

Valentino. Io muoio; quest’è presto detto, e più presto fatto. A che, o donne, state lì a piangere e a strillare? Venitemi intorno, e ascoltatemi. (Tutti gli fanno circolo.)

Vedi, Ghita mia! tu sei ancor giovane, tu sei ancora poco accorta e fai male i fatti tuoi. Io tel dico in confidenza; tu sei oramai una sgualdrina, e però stúdiati a fare il tuo mestiere come si dee.

Ghita. O, mio fratello! Dio mio! Che vuoi tu dire?

Valentino. Non trarre ora in ballo il nostro signore Iddio. Pur troppo quel che è fatto è fatto, e ormai ciò che dee essere, sarà. Tu ti sei data furtivamente ad uno e ti darai tosto a molti altri, e allorchè avrai fatto il piacere di una dozzina, tu farai leggermente il piacere di tutta la città.

Quando l’ignominia nasce, ell’è da prima recata nel mondo nascosamente: le si avviluppa intorno al capo e gli orecchi il velo della notte, anzi si vorrebbe poterla affogare. Ma poichè è cresciuta e s’è fatta grande, allora ella va attorno nuda di bel mezzodì, e non è pertanto più bella. Quanto più il suo aspetto divien brutto e abbominevole, tanto ella cerca più sfacciatamente lo splendore del giorno.

Io ho già innanzi a me il tempo nel quale ogni uomo da bene si scanserà, sguaiata, da te, come dal cadavere di un appestato, e il cuore ti si smarrirà nel petto quando un di loro ti guarderà pure negli occhi. Tu non porterai più catenella d’oro; non più apparirai in chiesa dinanzi l’altare, non più