Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/378

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del fato, a congiungersi focosamente con te, con te ch’egli avea tanto amata.

Elena. Io, fantasima, stringomi ad esso lui, fantasima del pari; era quello un sogno, le stesse parole ne fanno fede: io mi svengo, e addivengo per me stessa un fantasima.1 (Tramortisce in braccio alle ancelle.)

Il Coro. Taci olà, taci omai, gelosa calunniatrice dalla bocca nauseante, d’un sol dente provveduta! Che può mai uscir di buono da quelle orribili fauci spalancate?

Il tristo che ha il mèle sulle labbra, il lupo rabbioso sotto al manto di pecora, mi spaventano assai meno del furore del cane trifauce. Noi siamo nell’inquietudine, e domandiamo a noi stesse donde quando e come siaci qui venuto codesto orribile mostro, che veglia nelle tenebre.

Mentre ora, invece di arrecarne conforto, e spandere sopra di noi un largo fiume di amiche e dolci parole, vai nel passato frugando per cavarne fuora anzi il male che il bene; talchè lo splendore presente s’affioca ed appanna nell’atto che via dilegua il dolce lume di speranza nell’avvenire.

  1. Queste parole della Tindaride si rapportano all’alienazione mentale in che la gettano le sue rimembranze, e le immagini cui la Forcide si piace di evocare, nè contraddicono menomamente quanto dianzi fu detto. L’antica Elena è costei, la verace Elena, non già, come nel primo atto, un’ombra, un fantasma, un’idea, che ne sta dinanzi agli occhi; ce lo dice lo stesso Goethe: «Suppongasi che la legittima Elena, calzato il coturno della tragedia antica, venga in persona in prospetto al palazzo de’ suoi primi anni, a Sparta, ed ecco quanto io dimando per ora.» Kunst und Alterth. VI, 1. S. 203. — Per ciò che riguarda i fatti che la Forcide pare studiarsi di svolgere un dopo l’altro, veggansi: Platone, Fedro; Stesic., Framm.; Isocrate, Laudatio Helenæ, ec.