Encomio di Elena (Isocrate)
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Sonovi alcuni, che molto s’insuperbiscono, se un argomento inusitato, e fuori della comune opinione trattato avendo, arrivano a dir qualche cosa tollerabilmente intorno al medesimo, e vanno invecchiandosi, altri col dire, che non è mai possibile proferir menzogna, senza che sia contrastata3, nè poter darsi intorno allo stesso subbietto due ragionamenti diversi: altri affermando, che la fortezza d’animo, 4 la sapienza, e l’equità sono una sola, e medesima cosa; e che nessuna di queste virtù abbiamo dalla natura, ma che l’arte sola per ogni cosa richiedesi; altri fra risse totalmente s’esercitano, le quali siccome a niente giovano, così agli Uditori solamente capaci sono di recar pregiudizio. Comechè però io vedessi, che sì fatte inezie a’ giorni nostri introdotte sono nell’eloquenza, e che costoro per la novità de’ ritrovamenti vanno fastosi, non ho mai voluto in me stesso far di loro concetto alcuno. Chi ora è così indietro nell’erudizione, il quale non sappia, che 5 Protagora, e tutti gli altri Sofisti 6 de’ tempi suoi, piene appunto di tali, e di più intricate cose le loro opere ne hanno lasciate? Come mai alcuno tacerà di Gorgia, 7 il quale osò dire niente affatto esservi di quelle cose, che sono, o di Zenone 8, il quale si sforzò di mostrare, che le medesime possibili cose impossibili sono, o di Melisso 9, il quale, come se fossero un solo tutto 10, s’accinse a provare l’infinita moltitudine delle prodotte cose. Ma non ostante, che loro ad evidenza si mostri, quanto facile è il macchinar bugie sovra ciò, che alcun s’è proposto; molto ancor più su questo loro assunto si fermano, quando al contrario da parte lasciando que’ loro paradossi, i quali sebben con parole intesi sono a convincere gli altri, sono tuttavia essi pure già da lungo tempo per lor natura atterrati, avrebber dovuto in traccia andare del vero, e intorno ad azioni, che alla vita civile appartengono, gli Uditori ammaestrare, e nella pratica delle medesime esercitargli, riflettendo, che meglio è certo l’aver qualche idea conveniente delle cose giovevoli, che delle inutili acutamente disputare, e benchè di poco avvanzar gli altri nelle cose grandi, che assai nelle picciole, e donde il vivere umano veruna utilità non ricava. Il vero è, che niente hanno essi più a cuore, che d’avvantaggiare11 a spese de’ giovanetti. La qual cosa può loro agevolmente ottenere quell’amore, che hanno alle contese, e alle risse. Perciò coloro, a cui niente importa de’ privati, e de’ pubblici affari, trovano assai piacere in queste dispute, comechè del tutto vuote di giovamento. Può dunque al più concedersi d’una tal maniera di pensare perdono a’ giovani, che in ogni cosa il più superfluo, e il più mostruoso costantemente appetiscono. Giusto è però. che sien ripresi coloro, che fan professione d’insegnare ad altri, perciocchè muovono accuse a chi cerca d’ingannar ne’ contratti, recando torto alla giustizia co’ loro discorsi, ed essi frattanto più gravi mancamenti commettono. E in verità il pregiudizio, che apportan coloro, è ristretto a straniere, e determinate persone, ma questi son cagione d’assai nocumento a’ loro stessi familiari. E a tanto han fatto crescere la libertà di mentire, che già alcuni vedendo il giovamento, che costoro ne traggono, ardiscon di scrivere, che più degna d’essere invidiata è la vita de’ mendici, e de’ fuggitivi, che quella degli altri uomini. Così pensano di persuadere, che se nelle cose false essi trovan materia di ragionare, con maggiore abbondanza, e facilità vi riusciranno nelle cose buone, ed oneste. Io però son di parere, che non v’abbia maniera più ridicola, che quella di voler col mezzo di tali discorsi far credere, che in loro sia perizia delle civili cose, quando di ciò, che promettono, a lor vien fatto di recar qualche dimostrazione. In verità chiunque vuol mostrar 12 di sapere, e di facondo Oratore fa professione, non ha da proccurarsi onore in quelle cose, che furono dagli altri Greci 13 neglette, ma in quelle, a cui tutti indirizzano le loro dispute, e rendersi in tal guisa della volgar gente migliori. Essi però fanno in quella maniera appunto, che farebbe colui, il quale presumesse d’essere il più robusto fra gli Atleti, scendendo a quello steccato, in cui verun altro non si degnasse di seguitarlo. Qual mai, a dir vero, tra gli uomini di buon senno prenderà a lodare le avversità? Ma ella è cosa evidente, che costoro a questo passo ricorrono per debolezza d’ingegno: giacchè in quest’opere loro una sola condotta ritrovasi, niente difficile ad essere e ritrovata, ed imparata, e seguita; quand’al contrario i comuni ragionamenti, che degni sien di fede, e verisimili, solo da molte idee, ed osservazioni appena intelligibili hanno origine, e son condotti: e tanto più malagevolmente riescono, quanto è più disastroso il mantenere gravità dell’usare cavillazioni, e dello scherzare il discorrere seriosamente. Eccone un argomento fortissimo. A costoro, che scelto hanno di lodar l’api, e i sali, e simili cose, non mai parole mancarono. Ma chi delle cose buone, ed oneste, approvate dagli altri, e degli uomini per virtù eccellenti a favellare s’è accinto, molto meno ha potuto dire di ciò, che l’argomento chiedeva. Che non è opera del medesimo ingegno il parlar degnamente nell’un genere, e nell’altro; ma le picciole cose più di leggieri si possono co’ ragionamenti adeguare, e per lo contrario è difficile alla grandezza aggiungere dell’altre cose. Massimamente, che in que’ soggetti, che per se medesimi han lustro, è ben raro, che si trovi cosa a dire da altri non prima detta, ma negli umili, e da poco tutto è singolare, quanto ne vien sulle labbra. Per la qual cosa io lodo colui, che d’Elena 14 ha scritto, sopra quanti altri mai han fatto pompa di ben ragionare. Certo egli d’una tal Donna ha fatto menzione, che molto eccellente e per la schiatta, e per la bellezza, e per la gloria si rese. Sebbene anch’egli in una benchè picciola cosa ha mancato. Poichè dicono, che proponendo egli di scrivere gli Encomj 15 d’essa, una difesa pubblicata ha piuttosto delle cose da essa fatte. Nè già impresa è questa del medesimo genere, e della medesima natura, ma la faccenda va tutta all’opposto, convenendosi difesa a quelle cose, le quali hanno in se qualche taccia d’essere ingiuste, ed encomio a coloro, che in qualche prerogativa sono eccellenti. Perchè non sembri però. ch’io voglia fare ciò, che pure è facilissimo, riprendere altrui, e non far mostra del mio, sforzerommi anch’io di favellarne, senza far conto delle cose da altri toccate. Sarà dunque principio del mio ragionamento il principio della di lei prosapia. Molti per verità furono i Semidei, che nacquer da Giove, ma di questa sola femmina egli credè convenevole di chiamarsi Padre. E avvegnachè sommo affetto egli portasse al figliuolo d’Alcmena, tanto più di questo ha voluto, che fosse Elena onorata, quanto a lui diede la forza, con cui tutto potesse il possibil eseguire, e a questa la beltà concesse, che solita è di dar legge alla forza medesima. Comprendendo però, che lo splendore, e l’eccellenza non dalla quiete, ma dalle guerre, e da’ pericoli nascono, e volendo non solamente i corpi loro alla divinità sublimare, ma conceder loro l’immortalità eziandio del nome, fece la vita d’Ercole tutta infervorata per le stragi, e pe’ disastri, e la natura d’Elena avvenente formò, e tale, che ad ottenerla nascessero d’ogni parte contese. E Teseo 16 primieramente, detto figliuolo d’Egeo, ma in verità da Nettun generato 17, vedendola non per anco d’età fiorita, ma superiore ad ogn’altra nel volto, tanto dalla bellezza di lei si lasciò vincere, comechè a vincer altri assuefatto, che, avendo amplissima Patria, e securissimo regno, non pensò col possedimento di sì rari beni, che fosse giusto di vivere, senz’aver con essa soggiorno. Laonde non potendo senza volontà di quelli, a cui era soggetta, arrivare a possederla, conciossiacosachè aspettassero egli- 182 no e l’età della Figlia, e la risposta da Delfo 18; niente curandosi Teseo del regno di Tindaro 19, e disprezzando la forza di Castore, e di Polluce 20, e di tutti i gravi pericoli, che pur da Sparta gli potevan venire, nessun conto facendo, per forza rapitala, ad Afidne d’Attica la condusse, e tanto si mostrò grato a Piritoo partecipe 21 del rapimento, che volendo egli sposare la figliuola di Giove, e di Cerere, chiamato Teseo in compagnia 22 per discendere all’inferno, dopochè questi non potè altramente dissuaderlo, in faccia d’una certa, ed evidente disgrazia, si contentò d’accompagnarvelo, stimando, che tal mercede a’ meriti di lui si dovesse, e alla pericolosa società intrapresa, di non ricusare qualunque cosa, che da lui venissegli ordinata. Che se colui, il quale a tanto arrivò, fosse uno della volgar gente, e da non apprezzarsi tra gli uomini eccellenti, non sarebbe così chiaro, se questo discorso fosse piuttosto Encomio d’Elena, ovvero accusa di Teseo. Ma egli è pur vero, che tra gl’illustri personaggi alcun si trova di fortezza privato, altri di sapere, ed altri di qualche simile prerogativa; questo solo però di niente bisognoso ritroveremo dalla natura formato, ma d’ogni parte ripieno d’acquistata virtù. Io stimo pertanto opportuno dovermi intorno ad esso più lungamente diffondere, giudicando, che maggior fede saranno per acquistarsi i lodatori d’Elena, se mostreranno, che più maravigliosi degli altri furono gli amanti, e ammiratori della medesima. Di quelle cose certamente, che a’ tempi nostri arrivarono, possiamo anche noi colle nostre private opinioni avvalorare il giudizio. Non così delle antiche, nelle quali fa duopo, che noi andiamo d’accordo con ciò, che scrissero gli Oratori di quell’età. Ora io posso produrre per una bellissima testimonianza di Teseo, che nato essendo a’ tempi d’Ercole un’invidiabile gloria, e pari 23 a quella dell’altro, egli ha di se stesso lasciata. Imperciocchè non solo egualmente nell’armi pensarono d’illustrarsi, ma eziandio a’ medesimi istituti s’appigliarono, all’agnazione loro ben convenienti. Nati eglino da due Fratelli, uno da Giove, e l’altro da Nettuno, fraterne, per dir così, ebbero ancora le lor passioni; posciachè soli, fra quanti furon da prima, come atleti si formarono pronti a difendere la vita degli uomini: sicchè ne avvenne, che l’uno pericoli incontrò maggiori, e più celebri, l’altro più utili, ed uffiziosi a’ congiunti. Comandò a quello Eurialo di condur vacche da Eritea 24, di portare gli Esperj pomi, di rubar 25 Cerbero, ed altre tali fatiche, niente all’umana società profittevoli, ma tutte di pericolo a lui stesso. E Teseo già fatto di sua ragione tali giostre intraprese, onde o de’ Greci, o almeno di sua Patria fosse giudicato Benefattore, e ’l Toro da Nettuno 26 mandato, distruttore di quel Paese, contro del quale nessun ardiva affrontarsi, solo colla robustezza delle mani superando, da gran timore, e da grande angustia tutti liberò della Grecia gli abitatori. E dopo ciò fattosi de’ Lapiti 27 alleato, e contra i Centauri di doppia natura l’esercito conducendo, che trionfanti e per la celerità, e per la forza, e per l’ardire a qual Città davan sacco, a quale eran per darlo, a qual minacciavanlo, egli in guerra vincendogli, fiaccò loro le corna dell’ ingiurioso orgoglio, e non molto di poi tutta la schiatta loro sulla terra distrusse. A questi tempi vedendo condotti ad un mostro educato in Creta 28, nato da Pasifae figlia del Sole, giusto il solito tributo della nostra Città, quattordici bambini, accompagnati dal popol tutto ad una morte evidente, ed ingiusta, e vedendogli piangere ancor vivi, cotanto se ne sdegnò, che piuttosto credette di dover morire, che vergognosamente vivere Arconte 29 d’una Città, che pur sofferìa di pagare a’ nemici un così miserabil tributo. Entrato egli a parte della navigazione, superò da prima quella natura mista d’uomo, 30 e di toro, e tal robustezza avente, quale appunto conviensi ad un composto di questi corpi, di poi i salvati bambini a’ lor genitori restituì, liberando la Città in tal guisa dall’empio, gravoso, e inevitabil Decreto. Ma io dubito intanto a qual consiglio appigliarmi. Perciocchè giunto alle azioni di Teseo, e d’esse a parlar cominciando, non ho coraggio d’abbandonar l’impresa, e di passar sotto silenzio la crudeltà di Scirone 31, e di Cervione 32, e d’altri tali, contro di cui fattosi egli Antagonista, a molte, e tutte grandi calamità i Greci sottrasse. Ma d’altra parte io mi sento fuor de’ termini traspostato, e temo, che sembri ad alcuni, ch’io abbia maggior cura di lui, che di quella stessa, da me fatta segno del mio ragionare. Dunque dall’una, e dall’altra di queste ragioni angustiato, molte cose lascerò da parte in grazia di coloro, che mal volentieri le sentirebbero: e ’l rimanente proccurerò d’accennare colla maggior brevità, che mi fia possibile. Ora per accordar a lor qualche cosa, ed appagare in parte me stesso, tenterò di non restare al di sotto di chi è pur solito invidiare, e non far conto di ciò, che alcun dice. Teseo adunque mostrò fortezza in quell’opere, nelle quali solamente se stesso a’ pericoli assoggettò; mostrò di saper l’arte della guerra in quelle pugne, che unito a tutta la Città intraprese; mostrò divozione verso gli Dii nelle suppliche d’Adrasto 33, e de’ Figliuoli d’Ercole 34. Posciachè gli uni in battaglia superati avendo, a quelli del Peloponneso la perdonò: e gli altri estinti sotto Cadmea volle ad onta de’ Tebani restituire, perchè fossero seppelliti. Mostrò eziandio qualche altra virtù, per cagion d’esempio prudenza non pure nelle predette cose, ma in quelle eziandio, che al regolamento appartenevano della Patria. Imperciocchè osservando, che alcuni Cittadini stanchi di servire s’industriavano di comandare, che alcuni rendevano la vita altrui piena d’incomodi, e di perigli, mentr’essi vivevan sempre in timore, e che sforzati erano di combattere contr’a gente nemica, e straniera coll’ajuto de’ Cittadini stessi, o con truppe d’altro Paese contro degli stessi Cittadini; che di più spogliavano i templi de’ Numi, che i migliori del popolo uccidevano, che diffidavano delle persone più familiari, e che niente più vivevan essi d’animo tranquillo di quello facessero i condannati a morte, fortunati all’apparenza, ma in realtà più d’ogni altro dolenti, giacchè più trista cosa non v’ha, che viver sempre in timore d’esser ucciso da’ suoi domestici, e non meno dover guardarsi da’ Custodi, che dagli insidiatori, egli tutto ciò osservando, e giudicati costori non Principi, ma peste della Città, diede a vedere, che più agevole ad un medesimo tempo è il comandare, e non esser di peggior condizione degli altri Cittadini, che ad una stessa legge ubbidivano. E in primo luogo la dispersa Città, e in varie Ville divisa, tutta unita rendendo, cotanto illustrò, che da quel tempo fino a’ dì nostri si mantenne la maggior della Grecia. E formatala di poi comune Patria, liberando gli animi del popolo dalle primiere angustie, fece, che a tutti nella contesa delle onorevoli Cariche aperta fosse la strada, credendo, che in egual modo egli avrebbe lor sovrastato, se in esercizio si fossero mantenuti, come se neghittosi rimasti fossero. Di più comprendendo più soavi esser gli onori, che da persone d’eccelso merito, di quelli, che da persone assoggettate derivano, tanto s’astenne di far qualche cosa ad onta de’ Cittadini, che anzi risolse di costituire il popolo Padrone della Repubblica, mentr’essi al contrario lui solo credettero degno di comandare, ben persuasi, che più fedele, e più comune stata sarebbe la di lui monarchia, che il popolare di lor governo. Che non era egli già di tal natura, che comandasse altrui la fatica, ed egli intanto alle delizie s’abbandonasse: ma suoi faceva prima i pericoli, e cogli altri tutti ne divideva i vantaggi. E così amato da ognuno chiuse i bei giorni, senza vedersi da veruno insidiato. Nè per conservarsi il principato ebbe duopo ricorrere a straniere potenze, ma sempre ebbe d’intorno satelliti per benevolenza de’ Cittadini. Signor del popolo per l’autorità, eguale agli altri per sua generosità. Tanto veramente a norma delle leggi, e con tanta onestade la Città nostra governò, che ancora un vestigio è rimasto ne’ nostri istituti della di lui mansuetudine. Ma la virtuosa cotanto, e prudente figlia di Giove come non è forza lodare, ed onorare, e molto più eccellente de’ posteri tutti giudicare? Più fedel testimonio in verità non abbiamo, nè Giudice possiam trovare più adatto, intorno alle prerogative d’Elena, dello stesso giudizio di Teseo. Ma perchè non si creda, che per iscarsezza d’encomi io me la passi con sì fatta figura, per cui abusandomi della gloria d’un uomo solo, le lodi imprenda di lei, voglio altresì nelle cose, che rimangono a dire, alquanto intrattenermi. Dopo la discesa di Teseo all’inferno, ritornando Ella in Isparta, ed in età già pronta alle nozze, tutti que’ che regnavano allora, potenti nelle Città, si conformarono a Teseo nel discernimento del di lei merito. Imperciocchè avendo eglino la facoltà di prender Donne considerate le prime nelle loro Città, niente curandosi delle nozze in Patria, vennero a questa coll’animo di sposarla. Nè deliberato ancora, chi dovesse a lei congiungersi, e comune essendo per anco la fortuna di ciascheduno, siccome d’altra parte evidente una vicina guerra tra loro, tutti d’accordo si dieron parola di prestarsi vicendevole ajuto in caso, che alcuno pensato avesse di soverchiare chi ne fosse giudicato degno, avvisandosi ognuno di provvedere in tal guisa a se stesso, avvegnachè tutti, a riserva d’un solo, ingannati fossero da una privata speranza. Nè alcun di loro andò lontano dal vero intorno alla comune opinione, che d’essa avevano concepita. Poichè quindi a non molto, insorta sul punto di bellezza fra Dee contesa, della quale fu Alessandro figliuol di Priamo Giudice costituito, e promettendogli Giunone l’impero dell’Asia tutta, la vittoria nelle guerre Minerva, e Venere le nozze d’Elena, come un pieno giudizio non poteva prender de’ corpi, abbagliato dalla presenza di quelle Dive, fu obbligato ad esser Giudice de’ doni promessi, e a fronte d’ogn’altra cosa scelse la dimora con Elena, non pel diletto solo, che quindi ne avrebbe tratto, ancorchè ciò al parere d’alcuni savj è una cosa di molt’altre più desiderabile; ma egli ebbe in animo di farsi, e d’esser chiamato parente di Giove. Così con questa elezione si persuase, che molto più onesto fosse, e considerabile sì fatto onore, che ’l regno d’Asia, che i grandi Principati, che le potenze, le quali talvolta dagli uomini di nessun conto son possedute; quand’al contrario veruno de’ posteri non avrebbe mai potuto reputarsi degno d’una tal Donna. Bensì comprendeva, che maggior bene non avrebbe potuto a’ suoi figlj lasciare, che apprestar loro cagion di vantarsi, d’esser eglino per canto paterno, e materno da Giove discesi. Conosceva, che l’altre fortune sarebbero con celerità svanite, ma che la nobiltà sarebbe loro eternamente rimasa. Vedeva, che questa elezione vantaggio a tutta la stirpe recato avrebbe, ma gli altri doni sarebbono al più durati fino all’età de’ suoi figlj. I quai sentimenti poi da nessuna mente aggiustata a lui, furono rimproverati, ancorchè tra coloro, i quali sull’apparenza delle azioni si fermano, e niente passano avanti coll’immaginazione all’esito delle cose fosservi alcuni, che si facevan beffe di lui, mostrando di leggieri il poco lor senno dalla natura delle maldicenze, che adoperavano. Come mai per verità più ridevoli potean rendersi, che giudicando i loro discernimenti più acuti di quell’ingegno, che ad una sì alta impresa fu da’ Numi trascelto? Nè già è da credersi, che sovra la detta contesa abbiano a qualunque del popolo dato autorità di giudicare, ma egli è ben manifesto, che tutt’ebbero quella sollecitudine d’appoggiarsi ad un ottimo Giudice, che pur mostrarono in così ardua impresa d’avere. Egli è dunque mestieri di considerare chi egli fosse, e di conoscerlo non dalla passion delle Dee, che vinte rimasero, ma dalla scelta, che tutte d’accordo ferono del di lui giudizio. Poichè non è da stupirsi, se talora da più potenti persone a torto riceve calunnie chi non peccò. Ma che un mortale sia a parte d’un tanto onore, quanto è quello d’esser fatto giudice di Dee, questo non può altramente, che ad un uomo di singolar talento, avvenire. Io mi stupisco pertanto, che alcuno disapprovato abbia l’elezion da lui fatta di vivere con quella Donna, in grazia di cui già molti Semidei avevan voluto morire. O come piuttosto egli non sarebbe stato di poco giudizio, se vedendo le Dee tra loro in contesa per la bellezza, egli la bellezza sprezzata avesse, e non giudicato esser questa il maggiore di tutti i doni, intorno a cui comprendevale sì fortemente appassionate? E chi mai le nozze d’Elena non avrebbe curate, il di cui rapimento cotanta indegnazione cagionò a’ Greci, quanta, se tutta la Grecia destrutta fosse, e tanta superbia a’ Barbari, quanta, se di tutti noi altri si fossero impadroniti. E’ però assai chiaro ciò, che gli uni e gli altri ebbero in mente: imperciocchè essendosi per molte ingiurie scambievolmente provocati, sul rimanente fecero tregua, e guerra per questa sola intrapresero, non pure per la grandezza dello sdegno, ma eziandio per la lunghezza del tempo, e per la moltitudine degli apparati, 35 quale per anco non era avvenuta. E benchè gli uni colla restituzione d’Elena sene sarebbero agevolmente liberati, e gli altri non facendone stima sarebbero nel rimanente del tempo securamente vissuti, nessun di loro ciò volle, ma quelli sopportarono in pace di veder le Città atterrate, e saccheg giato il Paese, prima che farne restituzione. Questi poi elessero d’invecchiare nell’altrui terreno, e di non più vedere i lor figlj, piuttosto che abbandonandola fare alla Patria ritorno. Nè già a tanto s’accinsero per guerreggiare in favor d’Alessandro, o di Menelao, ma quelli per l’Asia tutta, questi per tutta l’Europa, giudicando, che dovunque il bel corpo di lei soggiornasse, più fortunato il Paese sarebbene divenuto. Anzi non solamente i Greci, e’ Barbari tanto presero per lei amore alle fatiche, e a questa spedizione, ma i Numi stessi, che risparmiare i loro Figlj non vollero da’ combattimenti d’intorno a Troja: che sebben Giove prevedesse il rio destin di Sarpedone 36, l’aurora di Mennone 37, Nettun di Cigno 38, e Teti d’Achille 39, cogli altri però gli armarono, e unitamente alla guerra mandarongli, stimando, che più bella impresa farebbero morendo in battaglia per la Figlia di Giove, che vivendo lontani da’ pericoli, che potevano per lei incontrare. E quale ragione di farsi maraviglia del destin de’ Figlj, come se i Numi stessi molto maggiore, e più grave combattimento non avessero impreso mercè di lei, che nell’azione 40 contro de’ Giganti? Poichè contr’ad essi unitamente tutti pugnarono, e in difesa di questa contro di se medesimi rivolsero l’armi. Rettamente pertanto la pensarono i Numi, ed io co’ lor sentimenti posso ragionevolmente il mio discorso ingrandire: che in verità Ella fu a parte di moltissima beltà, la più venerabile, la più onorevole, la più 41 divina cosa del Mondo. Ed è ben facile concepirne il valore: imperciocchè v’hanno assai cose, che appariscono d’onor più degne, che non quegli uomini, i quali a parte sono o della fortezza, o del sapere, o della giustizia. Ma in persone, che di beltade affatto scarseggiano, nulla ritroveremo, che ad amarle c’inviti: ed ogni cosa pur merita d’essere disprezzata, che in sè medesima idea di bellezza non abbia, e la virtù per questo solo al sommo grado s’innalza, ch’essa è il più bello di qualsivoglia ornamento. Forse alcuno potrà comprendere, quando d’ogn’altro bene pregevole sia la beltà, dalla stessa disposizione, per cui a ciascuno de’ begli oggetti siam tratti. Vediamo in realtà, che di qualunque altra cosa, che in uso abbiamo, da noi solo si cerca di conseguire il possesso, nè intorno alla medesima da verun’altra maggior passione è l’animo nostro agitato. Ma l’affetto alle cose belle è nato con noi, e tanto ha maggior forza d’obbligare la nostra volontà, quanto in se stessa ha la cosa più merito. Invidia portiamo a coloro, che o nel sapere, o in altre doti sono eccellenti, quando ogni giorno allettati non siamo co’ benefizj, e quasi ad amargli obbligati. Ma delle belle persone tantosto al primo incontro amici noi siamo, e sole, quasi altri Dii, non ci stanchiamo di venerarle, e più soave ne sembra ad esse ubbidire, che ad altri dar legge; più grati lor ci mostriamo, se molto comandano, che se per avventura nulla affatto c’impongono. Laonde se altri mai è ad alcun’altra virtù consecrato, noi siam avvezzi di motteggiarlo, e adulator lo chiamiamo: Ma coloro, che servono alla beltà noi giudichiamo pur essere uomini egualmente gentili, che industriosi. E tanta pietà, e tanta cuea abbiamo della bellezza, che se alcuno tra’ suoi avvenenti posseditori il fiore imprudentemente ne prostituisce, più ancora siam soliti d’ingiuriarlo, che non facciam per chiunque osa sugli altrui corpi peccare. Ma chi sa conservare la propria avvenenza, rendendola, qual cosa sacra, da qualunque macchia lontana, questo in ogni tempo onoriamo, come se dell’intiera Città fosse egli benefattore. Ma che bisogno v’ha mai, ch’io mi trattenga in accennare l’opinioni degli uomini? Giove stesso onnipossente in altre cose il suo potere mostrò, ma verso la bellezza umiliatosi, non è poi schivo di volgere intorno ad essa gli affetti. Sembianza prese una volta d’Amfitrione 42, per venire ad Alcmena. In pioggia d’oro 43 a Danae s’accostò; e rifugio fatto Cigno 44 al seno di Nemesi: Il qual aspetto nuovamente prendendo si fe’ marito di Leda 45. Talchè ben sempre con arte, non mai per forza apparisce d’aver egli simiglievoli nature assunte. Tanto adunque, più che da noi, è preferita la bellezza da loro, che per fino alle peccanti lor Donne son soliti di perdonarla, quand’hanno in volto bellezza. E molte alcuno potrà mostrare delle immortali Dee, che vinte furono da beltà mortale, così lontane di ciò recarsi a disdoro, o di tenere le lor passioni celate, che a guisa d’imprese leggiadre voller piuttosto vederle da altri celebrate, che messe in silenzio. Ecco di ciò, che s’è detto un argomento incontrastabile. Molto più persone noi ritroviamo fatte immortali per la bellezza, che per l’altre virtù tutte, delle quali tanto più Elena fu eccellente, quanto ancor più d’ogn’altra 46 ebbe avvenente l’aspetto. E per dir vero non solamente fu Ella partecipe 47 dell’immortalità, ma una potenza eguale a quella degli Dii ottenendo, ridusse in primo luogo all’esser de’ Numi i Fratelli 48, comechè già dal Fato raggiunti. Desiderando poi, che fede acquistasse dagli uomini il lor cangiamento, tali a lor diede manifesti segni d’amore, onde fossero salute a coloro, che in mezzo a’ pericoli del mare 49 piamente gli avessero invocati. Oltre a ciò tanto fu grata a Menelao per le fatiche, e disastri a suo riguardo da lui sostenuti, che già estinta la schiatta tutta de’ Nipoti di Pelope, e lui medesimo a mali irremediabili già soggiacente, non solamente a quelle calamità sottrasse, ma Dio da mortale facendolo, e suo assessore, per tutta la posterità poi trasselo a seco convivere, e della famiglia di lui fece sì, che la Spartana Città, conservatrice dell’antichissime cose, rendesse co’ fatti testimonianza. E ben tuttavia nel distretto di Terapne in Laconia, santi sagrifizj s’innalzan loro co’ riti paterni, non come ad Eroi, ma come a due Deità supreme. Anche al Poeta Stesicoro 50 fece ella mostra del suo pote re, quando sul cominciar d’un’Oda, bestemmiato avendo contro di lei, s’alzò in un tratto privo degli occhi. Nè prima per di lei grazia la vista riacquistò, che della cagione accorgendosi di suo sventura, non avesse con opposto canto sanato l’errore. Dicono di più alcuni fra’ partigiani d’Omero, che presentatasi a lui di notte, ordin gli diede di far menzion di coloro, che sotto Troja andaron per lei coll’esercito, volendo, che la lor morte più che la vita degli altri fosse invidiata. E che il Poema di lui tanto leggiadro poi fosse, e tanto nominato da tutti, cagione essere stato in parte l’artifizio d’Omero, e in parte il merito di lei. Come pertanto capace e di prender vendetta, e di recar benefizio, egli è convenevole, che co’ presenti a lei dedicati, e co’ sagrifizj, e in altre guise o la plachi, o l’onori, chi vuol in opere rendersi singolare; che i Filosofi tentino di qualche cosa produrre non indegna di sì alto subbjetto; che a lei finalmente queste primizie consacri un uomo dato alle lettere. Sebbene molto più di quanto ho accennato è il numero delle cose da me tralasciate. Diede Elena impulso al ritrovamento dell’arti, e alla scoperta de’ Filosofici arcani; ed a lei, e alla guerra Trojana tanti vantaggi dobbiam riferire, che pur sentiamo; e da lei ragionevolmente la cagion riconoscere, per cui di servire a’ Barbari non siam costretti. Ritroverem senza dubbio, che sol per questa i Greci s’unirono, e contro de’ Forestieri l’esercito mossero, e cominciò allora l’Europa ad ergere monumenti ad onta dell’Asia, del che tanta mutazione a noi avvenne, che, se prima di quell’età degni eran fatti i più infelici tra’ Barbari di comandare alle Greche Città, e Danao 51 dall’Egitto fuggendo Argo occupò, e regno in Tebe Cadmo 52 Sidonio, e quei di Caria 53 le nostre Isole abitarono, e di tutto il Peloponneso 54 Pelope figliuol di Tantalo ottenne l’impero; dopo di quella guerra cotanto la gente nostra avvantaggiò, che furon da noi 55 tolte a’ Barbari e grandi Città, e sterminato Paese. S’altri dunque con saggio consiglio non dubiteranno d’illustrare il mio assunto, avran cose oltre alle dette, ond’Elena esaltare, e molti potranno tessere in lode di lei eleganti, e nuovi ragionamenti.
- ↑ Quest'Orazione è stata divisamente dall'altre stampata colla version latina di Geronimo Wolfio nell'anno 1566. in 4., e in Italiano coll'altre ridotta da Pietro Carrario. In Venezia, per Michele Tramezzino, 1555 in 8.
- ↑ Il nome di questo famoso Oratore, non che nella Grecia a' suoi tempi, s'è mantenuto in ogni età glorioso ed illustre presso le colte nazioni. Ha egli la gloria d'essere stato Maestro d'uomini insigni, fra quali di Senofonte, di Teopompo, d'Iperide, d'Iseo, e dello stesso Demostene. Poichè varj Encomiatori ebbe del merito suo, e varj Scrittori della sua Vita, nel numero de' quali Plutarco, Filostrato, e Dionisio Alicarnasseo; ci contenteremo di qui portare in sua lode le testimonianze di Cicerone, che così ne parla al III. de Oratore. Suavitatem Isocrates, subtilitatem Lysias, acumen Hyperides, sonitum Æschines, vim Demosthenes habuit. E nel Bruto. Isocrates, cujus domum cunctae Graeciae quasi ludus quidam patuit atque officina dicendi, Magnus Orator, et perfectus Magister, quamquam forensi luce caruit, intraque parietes aluit eam gloriam, quam nemo quidem meo judicio est postea consecutus. E nell'Oratore. Horum etati successit Isocrates, qui praeter ceteros ejusdem generis laudatur semper a nobis, nonnumquam, Brute, leviter, et erudite, repugnante te. Sed credas mihi fortasse, si quid in eo laudem cognoveris. Nam cum concisus ei Thrasymachus minutis numeris videretur, et Gorgias, qui tamen primi traduntur arte quadam verba vinxisse, Thucydides autem praefractior, nec satis, ut ita dicam, rotundus, primus instituit diletare verbis, et mollioribus numeris explere sententias. Non fu però esente dalla censura di Plinio per la soverchia sua cultura, e soavità, parendogli siccome elegante, e degno d'ammirazione, così talora snervato, e più freddo, che non dovrebbe.
- ↑ Tal opinione sentendo Socrate, lepidamente rispose: ἰδοὺ ἐγὼ ἀντιλέγω ecco io vi contrasto.
- ↑ A proposito Cicerone 5. de Finibus. Servari justitia nisi a forti viro, nisi a Sapiente non potest.... Atque haec conjunctio confusioque virtutum, tamen a philosophis ratione quadam distinguitur. Nam cum ita copulatae, connexaeque sint, ut omnes omnium participes sint, nec alia ab alia possit separari, tamen proprium suum cuiusque munus est, ut fortitudo in laboribus periculisque cernatur, temperantia in praetermittendis voluptatibus, prudentia in delectu bonorum et malorum, justitia in suo cuique tribuendo.
- ↑ Di costui scrisse fra gli altri la vita Diogene Laerzio, da cui ahannobbiamo, che fu il primo ad introdurre sofismi in grazia di coloro, che amanti erano delle contese. Varj di lui sofismi egli adduce, e bizzarro tra gli altri è quello che nota Aristotile nella Poetica, che ripetendo essa Omero, ὅτι εὔχεσθαι οἰόμενος ἐπιτάττει εἰπών μῆνιν ἄειδε θεὰ, perchè immaginandosi di pregare comanda, dicendo: Canta l’ira, o Dea. Misto, e contenzioso lo chiama anche Timone presso Laerzio: Προταγόρης τ᾽ ἐπίμικτος ἐριζέμεναι εὖ εἰδῶς. Tanto fu stimata però la sua filosofia, ed eloquenza, che volgarmente chiamato era σοφία, e λόγος.
- ↑ Costoro avean da principio gran credito appresso a’ Greci. Non erano nè Filosofi, nè Oratori, e sebbene avean concetto d’esser uomini saggi, si guardavan però dal chiamarsi σοφοί, per esser nome troppo arrogante. Avendo poi molto empie dottrine verso gli Dii pubblicate, e rendutisi contenziosi, e superbi verso degli uomini, la stima perdettero, e furono comunemente aborriti. Molti scrissero contro di loro, tra’ quali una singolar Orazione il nostro Isocrate.
- ↑ Fu per altro Gorgia maestro d’Isocrate, come narrano Plutarco, Dionisio Alicarnasseo, Filostrato, e Suida.
- ↑ Sebbene otto di questo nome v’ebbero a detta di Diogene Laerzio nella Vita di Zenone Cittico, e diciassette ne nomini il Fabrizio Biblioth. Gr. lib. II. pag. 824, quegli però, di cui Isocrate parla, è facile a divisare, che fosse l'Eleate; sì perchè gli altri vissero dopo il nostro Oratore, sì perchè appunto fu questi, che, al dir di Suida, scrisse τὰς ἔριδας, contro delle quali Isocrate menò di sopra tanto rombazzo.
- ↑ Fu costui Maestro di Zenone Eleate, e scrisse περὶ ὀντὸς καὶ φύσεως, giustamente biasimato da Platone, e da Aristotile.
- ↑ Quest’opinione, che a Melisso pare attribuita anche da Laerzio nella di lui Vita, arrivò a piacere al medesimo Cicerone, il quale de Oratore così scrive_ Mihi quidem veteres illi majus quiddam animo complexi, plus multo etiam vidisse videntur, quam quantum nostrorum ingeniorum acies intueri potest, qui omnia haec, quae supra, et subter unum esse, et una vi, atque una confusione naturae constructa essa dixerunt.
- ↑ Rincresceva fors’anche ad Isocrate d’aver pagato μνὰς ρ᾽ a Gorgia Leontino, le quali, per relazion di Suida, esigeva da’ suoi Scolari.
- ↑ S. Paolo: σοφοὶ φάσκοντες εἶναι ἐμωράνθησαν
- ↑ Cic. III. de Orat. Ex eo ipso est conjectura facilis, quantum sibi illi ipsi Oratores de praeclarissimis artibus appetierint, qui ne sordidiores quidem repudiarint. Quid de Prodico Chio? Quid de Thrasimacho Chalcedonio, de Protagora Abderita loquar?
- ↑ Finalmente comincia a parlar d’Elena, ma per poco. E’ questa un’Orazione piena zeppa di digressioni. Ora i Sofisti riprendonsi, ora si loda Teseo, ora si scusa Paride, ora l’Autor difende se stesso. Aristotele lib. 3 a Teodette dice esser questo stato artifizio d’Isocrate d’aver voluto arricchire con tanti Episodj un argomento di sua natura sterile.
- ↑ Qui parla dell’Orazione di Gorgia. Ma non è vero, ch’egli si proponesse gli Encomj d’Elena, dicendo nel suo Esordio essere cosa ben giusta ἐλέγξαι τοὺς μεμφομένους, e di voler egli τὴν μὲν κακῶς ἀκούσασαν παῦσαι τῆς αἰτίας. Avrebbe per altro ragione Isocrate, quando l’Orazione di Gorgia fosse intitolata Ἑλένης Ἐγκώμιον, siccome ha creduto il Fabrizio Biblioth. gr. lib. II. pag. 911. Nell’edizione però d'Errico Stefano è questo il titolo Περὶ ἀρπαγῆς τῆς Ἑλένης.
- ↑ Ellanico, a dir di Plutarco, riferisce, che già era Teseo di cinquant’anni, allorchè rapì Elena giovinetta. Dal qual delitto, però altri lo scusano, come da non credersi in uomo di quell’età, e ne accagionano Ida, e Lyngeo-
- ↑ La faccenda però è andata così, come racconta Plutarco. Egeo desiderava figliolanza. Gl’impose un Sacerdote d’Apollo, che s’astenesse da Donne prima del suo arrivo ad Atene. Giunto egli a Trezene, soggiorno di Pitteo, per fecondare il genio di questo, che lo voleva congiunto ad Etra sua figlia, disubbidì all’Oracolo; e poich’ell’ebbe da lui concepito, l’abbandonò, lasciandole sotto un grosso sasso la Spada, e i Calzari, onde ὀνομασθῆναι λέγουσι διὰ τὴν τῶν γνωρισμάτων θέσιν. Frattanto rumore fu sparso da Pitteo d’essere stata la Figlia da Nettuno ingravidata, Dio da’ Trezenii assai venerato, o come tutelare della Città tenuto.
- ↑ Tempio d’Apolline, troppo noto per i suoi Oracoli. Così fu chiamato, per testimonianza di Suida, per essersi ivi trovato il Delfino dal Dio Apolline ammazzato.
- ↑ Padre d’Elena.
- ↑ Fratelli d’Elena, creduti non men, che questa, generati da Giove, e perciò chiamati διόσκουροι.
- ↑ Andarono Teseo, e Piritoo a Sparta, e rapitane la bella Donna, che nel Tempio di Diana saltava, presero immantinenti la fuga. Arrivati alla Morea in sicuro, poichè fino a Tegea stati erano inseguito, patteggiarono tra loro di cavare a sorte chi ne dovesse esser marito, e d’ajutarsi l’un l’altro contr’a chiunque pensasse di molestarne le nozze. Coì Plutarco.
- ↑ Narra Plutarco, che Teseo fu compagno a Piritoo nella sua gita ad Epiro per ajutarlo ad ottener Proserpina, figlia d’Aidoneo Re de’ Molossi. Promessa l’aveva questi a quel de’ Proci, che avesse il suo Cerbero, ferocissimo Cane abbattuto. Ma poi accorgendosi, che Piritoo non era venuto per guadagnar col valore la figlia, ma per rapirla, ambidue gli amici fe’ prendere, e Piritoo ammazzato da Cerbero, e Teseo tener prigione. Quindi ha origine avuto la favoleggiata discesa all’inferno.
- ↑ Plutarco dice, ch’era andato in proverbio ἄλλος οὗτος Ἡρακλῆς questi è un altro Ercole.
- ↑ Oggi Cadice. Isola nel mar Occidentale di rincontro appunto al Promontorio d’Ercole, che Tolomeo pone nelle Tavole I. e IV. dell’Affrica.
- ↑ Così andò la cosa, come racconta Palesato cap. 40. Gerione aveva de’ giovani, e grossi Cani per custodia de’ Buoi, tutti col nome loro, uno de’ quali Cerbero chiamavasi, e l’altro Oro. Fu Oro in Tricaria da Ercole ammazzato, prima che i Buoi ne rapisse, e Cerbero dietro a’ Buoi se n’andò. Avido assai d’averlo un uom di Micene, per nome Molosso, cercollo in dono ad Euristeo, e vedendoselo negato, i pastori adunò, che dentro una spelonca vicino a Tenaro rinchiusero il Cane. Euristeo mandò poi Ercole in cerca del Cane, ed egli per la Morea scorrendo, finalmente al luogo arrivò, in cui dicevasi, che stato fosse nascosto; indi nella spelonca scendendo menò via Cerbero. Perchè disser gli uomini, ch’essendo Ercole per la spelonca nell’inferno calato, di là trasse il Cane.
- ↑ Vedi Plutarco nella Vita di Teseo.
- ↑ Della guerra tra’ Lapiti, e Centauri vedi Palesat. cap. I, e Diodor. Sicul., lib. 4 Erodoto presso Plutar. pensa, che molte guerre essendosi fatte a’ tempi di Teseo, egli non volle esser a parte, che di quella fatta da’ Lapiti contro de’ Centauri.
- ↑ Era fama, che Androgeo fosse per via d’insidie on Attica ucciso. Minosse contro degli Ateniesi s’armò, e molta strage recò a quel popolo. Sene sdegnaronoanche gli Dei, e mandarono un’infermità negli uomini, e i fiumi stessi s’inaridirono. Rspose Apolline, che placato Minosse, sarebbonsi anche gli Dei acchetati. Pensarono dunque gli Ateniesi di patteggiar con Minosse questo sanguinoso tributo di sette fanciulli, ed altrettante zitelle. Vedi Plutar. Vit. di Tes.
- ↑ Nove erano i Signori d’Atene: sei tesmoteti, l’Arconte, il Re, il Polemarco. Vedi Suida alla voce Ἄρχων
- ↑ Del Minotauro dice Euripide Σύμμικτον εἶδος κρισοφώλιον βρέφος; e altrove; Ταύρου μεμίχθου καὶ βροτοῦς δὶπλη φύσις
- ↑ Era costui un assassino di strada, che obbligava i viandanto a lavarsi i piedi, mentr’egli co’ calci gli gettava poi crudelmente nel mare. Ma gli scrittori di Megara pretendono, che Scirone nè fosse ladro, nè uom crudele, ἀλλὰ ληστῶν μὲν κολαστὴν, ἀγαθῶν δὲ καὶ δικαίων οἰκεῖον ἀνδρῶν καὶ φίλον. Così Plutarco il quale racconta, che fu Scirone da Teseo precipitato giù dalle pietre; e Diodor. Sicul. lib. 4, che dice il medesimo, asserisce di più, che in queste pietre, dal di lui nome chamate Scironidi, egli era solito di soggiornare.
- ↑ Fu egli vinto ad Eleusine nella lotta da Teseo, come s’ha da Plutarco, e da Diodoro lib. 4, il quale asserisce essere stato questo il detto di lui, che venendo alla lotta cogli Ospiti, in fin gli uccideva. Di qui prende Momo occasione di così parlar a Giove, presso Luciano Ζεὺς τραγῳδός: Dunque se Teseo da Trezene venuto ad Atena non avesse nel viaggio ucciso i malefici, quanto a te, e alla tua providenza, vivrebbero ancora gl’insolenti assassini di strada Scirone, Pitiocampte, Cercione, ed altri. E così poi bizzarramente, continova a lodar Teseo, ed Euristeo.
- ↑ È nota l’istoria della spedizione d’Adrasto contro d’Eteocle, il quale a Polinice fratel suo negva la dovuta porzion del regno. Vedine Diodoro Sicul. lib. 4.
- ↑ Isocrate stesso nel Panegirico dà spiegazione al passo presente. Vennero, dic’egli, anche i figliuoli d’Ercole, e poco prima di loro Adrasto, figlio di Talao, e Re degli Argivi. Non potendo egli nella spedizione Tebana portar via dopo la sconfitta i cadaveri degli uccisi sotto Cadmea, chiese dalla nostra citta, che mossasi a compassione delle comuni disgrazie, recassegli ajuto, nè lasciase giacer insepolti coloro, che restti eran sul campo, a dispetto dell’antica consuetudine, e delle patrie leggi. E i figli d’Ercole nel fuggir che facevano del nemico Euristeo, nulla curandosi dell’eltre città, che non potevano rimedio dare alle loro disgrazie, pneasrono di ricorrere alla nostra sola ec.
- ↑ Dicon però, che fossero assai maggiori gli eserciti di Nino, e di Semiramide, e istessamente degl’Israeliti, quando fuggirono d’Egitto.
- ↑ Figlio di Giove, e di Laodamia, fu ammazzato da Patroclo.
- ↑ Figlio dellìAurora, e di Titone; restò ucciso da Achille.
- ↑ Figlio di Nettuno, e di Calice, secondo Igino fav. 157
- ↑ Figlio di Peleo, e di Tetide, della cui morte, sebben taciuta da Omero, fa menzione Q. Smirneo, dicendo, che fu saettato da Apolline, il quale in vano lo avea consigliato di dar fine alla guerra, quando stva per vendicar la morte di Antiloco.
- ↑ Diodor. Sicul. lib 5 numera tre guerre fatte da Giove contr’a’ Giganti
- ↑ Espressioni, che meritano compatimento in un Gentile
- ↑ Fu quindi generato ercole. Luciano nel Dialogo tra Mercurio, e ’l sole fa, che Mercurio racconti al Sole d0esser egli dalla Bezia mandato da Giove, che quivi avea con Alcmena soggiorno. Risponde il Sole: Ma queste cose, o Mercurio, non si facevano al tempo di Saturno (giacchè qui siam soli), nè mai si staccava egli dal letto di Rea, nè lasciato il Cielo in Tebe dormiva ec.
- ↑ Luciano nel Dial. tra Dori, e Teti racconta, che Acrisio Padre di Danae, bellissima Vergine da lei custodita in un talamo di bronzo, dopochè Giove le si accostò in pioggia d’oro la fece in un’arca gettar nel mare unitamente al nato bambino.
- ↑ Così Igino Poeticon Astronomicon fab. 8 Jupiter cum amore inductus, Nemesin diligere coepisset, neque ab ea, ut secum concumbere, impetrare potuisset, hac cogitatione amore est liberatus: jubet enim Venerem Aquilae simulatam se sequi, seseque ipse in olorem vertit, et ut Aquilam fugiens, ad Nemesin confugit. Di qui poi fingono, che fosse generao il famoso uovo, che getato da Mercurio in seno a Leda, diè poi la nascita alla bellissima Elena.
- ↑ Niente però dice Isocrate della forma di Toro presa da Giove per rapir Europa, come ha fatto Lucian. Dial. Χαριδημ. τοῦτο δὲ ἐν οἴδε ταύρου τὴν Εὐρώπην ἁρπάζει.
- ↑ Luciano però fa, che Micillo dimandi al Gallo, servitor suom, poi trasformato in uccello, se le cose avvenute sotto Troja furono appunto, quali Omero le descrive. E ’l Gallo risponde, ch’Elena non fu così bella, come si pensava; che aveva bensì la cervice candida, ed alta, ma ch’era vecchia, e quasi dell’età di Ecuba; che Teseo, il qual visse all’età d’Ercole, rapitala prima in Afidne la possedè; Ercole, che già avea a memoria de’ loro Padri un’altra volta preso Troja.
- ↑ Euripid. nell’ultimo Atto dell’Oreste, la fa comparir sulla scena già fatta immortale.
- ↑ Castore, e Polluce, chiamati i Gemellim di cui Eratostene Cireneo Καταστερισμ. 10, Questi son detti Dioscuri, che quanto al fraterno amore tutti gli altri vincevano. Poichè nè intorno al principato, nè in altra cosa tra lor contendevano. Giove perciò volendo, che si tenesse memoria della loro concordia, gli chiamò i Gemelli, ed amendue gli ripose tra gli astri. Descrive quindi la giacitura degli Astri, che in numero di diciassette risplendono tra’ loro corpi nel cielo.
- ↑ Perciò Orazio volendo augurare prospera navigazione in Attica al suo amico Virgilio, così ne parla alla nave Carm, lib. I. Od III.
Sic te Diva potens Cypri,
Sic fratres Helenae, lucida sidera,
Ventorumque regat pater &c.Vedi l’Idillio di Teocrito intitolato Διόσκουροι.
- ↑ Quel buon vecchio presso Dion Grisostomo nell’Orazione a’ Troiani si fa giustamente beffe di quanto qui dice Isocrate. Fu però quest’errore da Macrobio ammesso; e Luciano ἀληθ. ἱστορ. lib. s. par che v’acconsenta, ove dice καὶ γὰρ καὶ τοῦτον παρ᾿ αὐτοῖς ἐθεασάμην, ἤδη τῆς Ἑλένης αὐτῷ διηλλαγμένης. Notizie di Stesicoro ne dà Giovanni Tzetze βίβλ. ἱστορικ. κε. senza però nulla accennarne di questo fatto.
- ↑ Diodoro Sicilian. Bibliot. lib. V racconta, che Danao fuggendo colle figlie da Egitto, poichè arrivò a Lindo di rodi, accoltovi da’ paesani, fabbricò un tempio a Minerva, e la statua della dea vi consecrò. In questo pellegrinaggio gli morirono in Lindo tre figlie d’epidemia. L’altre col Padre passarono ad Argo.
- ↑ Che fosse Cadmo il primo Re di Tebe, anzi il primo, che introducesse nella Grecia le lettere, tutti lo racontano i greci Storici. Che poi fosse Sidonio, o Fenice, ch’è il medesimo, si cava da’ versi di Zenodoo Stoico addotti da Laerzio in Zenone, e da Suida alla voce Κάδμος, il quale sembra, che malamente ne supponga Zenone l’autore. I versi son questi: Εἰ δὲ Πάτρα Φοίνισσα, τίς ὁ φθόνος; ὃν καὶ Κάδμος κεῖνος, ἀφ’ οὗ γραπτὰν Ἑλλὰς ἔχει σελίδα.
- ↑ Tucidide Istor. lib. I. 5. 8. edit. Amstelad. 1731, racconta pure di que’ della Carîa, che vivevano co’ latrocinj, e che la maggior parte occupavano delle lor Isole.
- ↑ Pelope, figlio di Tantalo, le di cui avventure sono ottimamente cantate da Pindaro Olimp. Od. I, portato avendo gran copia di ricchezze dall’Asia, s’impadronì del Paese, ch’ora chiaman Morea, e, benchè forestiero fosse, ottenne, che dal suo nome fosse chiamato Peloponneso. Tucidid. Istor. I 5.9.
- ↑ Tucidid. lib. I 8. 12. racconta, che non subito dopo l’affar di Troja i Greci poteronostabilir le lor sedi. Quei di Beozia sessant’anni dopo l’eccidio, scacciati fuor d’Arne da’ Tessali, abitarono la Cadmea. I Dorici ottant’anni dopo occuparono cogli Eraclidi il Peloponneso. E dopo lungo tempo gli ateniesi mandaron Colonie nell’Ionia, e in buona parte dell’Isole: Ciò, che fecereo quei del Peloponneso in Italia, e in gran parte della Sicilia, e in altri luoghi di Grecia.
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