Pagina:Fiore di classiche poesie italiane ad uso della gioventù, volume II, Milano, Guigoni, 1867.djvu/356

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Poscia che a’ nostri cor l’ira s’apprese
     Che dagli alpini termini a Peloro
     Arde miseramente il bel paese,
40Pe’ ghibellini parteggiâr coloro,
     Pe’ guelfi noi: la popolosa valle
     Parte a noi fu seguace, e parte a loro.
Spesso con man d’armigeri alle spalle
     Quinci e quindi movemmo, e i ferri acuti
     45Menammo sì che ne fu rosso il calle.
Ma come fummo in sul cader venuti
     Del travagliato secolo, a tal crebbe
     Quell’ira in noi, ne’ fidi nostri aiuti,
Che mal tutte narrar lingua saprebbe
     50Quante e quai fur le sanguinose gare,
     A cui nulla fra noi modo più s’ebbe:
Era questo gentil tempo che pare
     Di nova gioventù ridan le cose
     E tutte amando invitino ad amare;
55Quando l’odio crudel l’arti nascose
     Contra me volse, e miserabil segno
     Di quanto ei possa in uman cor, mi pose.
Me di due figli il ciel fatto avea degno:
     Un giovinetto a cui di casto amore
     60Da sei lune era dato il primo pegno,
E una donzella a lui d’anni minore,
     Leggiadra, che cred’io non invermiglia
     Gote più belle il verginal pudore.
Raniero, padre dell’ostil famiglia,
     65Cresciuto avea fra numerosa prole
     Un orfanel che nacque di sua figlia.
In quell’età che a dolci affetti suole
     L’anima aprirsi e in avvenenti spoglie
     Non vide ingegno più ferace il Sole;
70Tutte il garzon le scellerate voglie
     Sempr’ebbe a danno ed a ruina intente
     Di me, de’ miei, di mie paterne soglie.
Ma perchè a guardia continuamente
     Del castel vigilavano e di noi
     75Eletto stuol di mia privata gente,