Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. II, 1912 – BEIC 1821752.djvu/147

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24
La legge non fu mai né fia signora
bastante di far buono e giusto l’uomo
e scuoter lui de la prigione fuora
ove rinchiuse il mal serbato pomo,
a tal che ’n suo poter fin a quest’ora
non ha donde soggioghi quell’ indomo
nemico di giusticcia o quel tiranno
peccato suo, ch’incatenato l’hanno.
25
Però la fede candida e vivace,
fatta per me del regno mio possente,
dal fango, da li ceppi ove sen giace
l’addottivo figliuol cosi vilmente,
ha forza di levarlo, e ’n grazia e pace
del Padre mio ridurlo amabilmente:
cosa che non mai fece né far puote
colei che non risana e sol percuote.
26
Ma dove vi parrá ch’i’ accresca o scemi
cotesta legge o ch’alteri le carte,
riconoscete ben che li medemi
spirti non son del mondo in ogni parte,
e che mi è vuopo fra gli quatro estremi
diversi lidi por gran studio ed arte
ch’a tutti fia del del facil salita,
né legge sia d’un iota isminuita.
27
Essa d’un popol solo giá fu legge,
d’un popol solo neghittoso e ingrato:
però fu acerba, ché non si corregge
se non con battiture l’ostinato.
Or che da me son l’ infinite gregge
di vario sangue, di costume e stato
da riformar, qual savio pegoraro
rammesco il nuovo dolce al vecchio amaro.