Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. II, 1912 – BEIC 1821752.djvu/179

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Or qui l’abbiamo in terra, eccol, signori,
vien come il buon pastor con gli agni drieto;
ecco mirate il volgo ch’entro e fuori
tutto di varia peste immondo e vieto,
esce a lui contra; e quanti e quai langori
sono antiposti al medico discreto,
quai ciechi e sordi e muti, quai sciancati,
quai di demòni e quai d’umor enfiati!
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Tra’ quali mezzo al monte si gli affaccia,
ecco, chiamando un povero lebroso:
— Signor — dicea — potete (pur vi piaccia!)
mondarmi d’esto mal si dispettoso,
deforme si, ch’ognun m’aborre e caccia:
la legge, il tempio, il mondo m’ è sdegnoso.
Voi, medico gentil, dal ciel disceso,
s’ho punto fé, levatemi tal peso! —
34
Stette l’Autor del bene in su le piante,
mosso a diletto d’una fé si pura:
non torce il ciglio con altier sembiante,
non come scriba il naso si rattura.
Tosto pietá, eh’ è ’n lui, gli mette inante
quella per cui discese creatura,
forma del ciel, peggio di fango avuta;
onde trarlasi appresso non rifiuta.
35
Palpa con mano quel cadaver vivo
e quanto può sommette il nostro orgoglio,
ché non pur non gli è sordo, avaro e schivo,
ma gli risponde, tutti odendo: — Io voglio
quello che Fede vuol; però tu privo
non oltra sei del tatto altrui, ch’i’ toglio
— in questo dire apparve mondo e netto —
dal corpo il suo, da l’alma il tuo difetto.