Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. II, 1912 – BEIC 1821752.djvu/282

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Peccai, misero me! ch’io v’ho tradito
per avarizia il sangue giusto e santo:
pigliate il vostro argento, ch’io pentito
son giá del fallo mio, né vaimi il pianto ! —
A cui risposer: — S’hai di ciò fallito,
ch’abbiamo a farne noi? Tu questo tanto
porta con te, ché noi ne siamo netti:
guarda com’al giudiccio ti sommetti! —
93
Partesi quel mal seme disperato
e, non lontan da dove piagne Pietro,
s’ebbe a la corda il gozzo avvilupato
presso ad un tronco non di canna o vetro,
il qual poi ch’ebbe intorno rimondato,
mira ch’alcun noi vegga inanti e dietro:
monta l’infausto sorbo e giú si lancia;
restavi impeso e scoppiagli la pancia.
94
Era tra Ponzio ed il secondo Erode
cresciuto, come avien, non picciol sdegno,
ché per superbia lor, per ira e frode
mai duo’ tiranni non abbraccia un regno.
Iesu, che de la pace piú si gode
che non si duol del vituperio indegno,
mentre da questo a quel, da quello a questo
tratt’era, ogni lor furia smosse presto.
95
Erode avea gran tempo avuto brama
vedere il Salvator, non perché voglia
creder in lui, ma la mirabil fama,
ch’ognor crescendo monta in ciel, l’invoglia
di veder segni ; e sol perché non ama
ch’a sé de le sue mende il carco toglia
piú che levare un morto e vivo gire,
puotelo sol veder, noi puote udire.