Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. III, 1914 – BEIC 1822407.djvu/108

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Mentre durava questo pianto interno
del non veduto addolorato coro,
sbuca una donna, e par ombra d’inferno,
70livida, macra, ed una di coloro
che i denti hanno per fame neri e rari,
corti capei d’argento e viso d’oro.
Lei tal esser pensai, ch’alle lunari
frigide luci accoglie le verbene,
75donde sepolcri adorna e stigi altari.
Davasi vanto ancor, che il corso tiene
del cielo ai vaghi rai, de’ fiumi all’onde,
che lega l’ombre e slega di lor pene.
— Oh — dissi — brutta larva! E quando e donde
80quest’orca vien? Come natura mai
soffre tal mostro e agli occhi non l’asconde? —
Risposemi Palermo: — Non piú ornai
Dio ver’ costei la sua pietá proroga,
ma gir lasciolla negli amati guai.
85Amò quest’ebra sempre Sinagoga
piuttosto esser vii serva in lordi panni,
che donna di province in regai toga;
piuttosto aver d’Egitto i mesi ed anni,
un’etá lunga in servitú crudele,
90qual non mai s’ebbe da’ piú fier tiranni,
eh’esserne tratta fuor sotto il fedele
suo amante Dio, che sua mercé l’assunse
al regno in dote a lei di latte e miele.
Piuttosto l’impudica si congiunse
95a cani e porci, non che a servi e schiavi,
e in stupri e incesti l’empia lupa sunse,
che gioir lieta e casta nei soavi
abbracciamenti del suo sposo Dio,
il qual di Faraon le macchie lavi.
100Però, da poi eli’un tempo il Signor pio
sostenne l’insolenzia d’esta bestia,
che al dritto andar sempr’ebbe del restio.