Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. III, 1914 – BEIC 1822407.djvu/165

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Cosi chiamarlo è di divin consiglio,
ch’un fulmine sará di tuono uscito
nel predicar, sprezzando ogni periglio.
Io il veggo giá del bel Giordan sul lito;
35io il veggo innanzi ai re senza rispetto
corregger l’altrui mende pronto e ardito.
Non vino egli berrá, né, fuor che il schietto
suo Gioredan, mai gusterá bevanda:
duro a se stesso, rigido, negletto.
40Cosi meritamente poi s’ammenda
le altrui mal fatte cose, quando nulla
trovi nel predicante, che t’offenda.
Giá mi si fa sentir del fiume sulla
sponda elevata la fulminea voce,
45che ad affrenar gli altieri si trastulla.
Non è si forte cuor, si duro e atroce
ch’udendo lui non tremi e senta al gusto
che d’Acheronte varcherá la foce.
Piú schietto d’òr, piú di bilance giusto,
50odo che gli ebri e adúlteri castiga,
parla scoperto ciò eh’è mal e ingiusto.
Di che rancor muovesi contro e briga;
ma non fia mai ch’a sforzo altrui soccomba,
o che di troppo detto aver s’affliga.
55Anzi piú fiato alla sonora tromba
rinforza il petto, ed ove molti stanno
piú scuote Palme loro e vi rimbomba.
La porpora non piú del rozzo panno,
Poro non stima piú del fango e loto;
60tutti ad un segno senza parte vanno.
Fra le minacce, come scoglio immoto,
nel dir lo ver giammai non viene stracco
contra potenti e fuor del volgo ignoto.
— Seme d’Abram — dirá, — seme d’Isacco
65non siete voi; vostr’opre a Dio son cónte;
ved’Egli sol che colmo avete il sacco!