Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. III, 1914 – BEIC 1822407.djvu/194

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Non le lor dure facce temerai,
ch’io ti sto sempre accosto e ti do mano,
qualor s’accingeran per darti guai.
Ecco, t’apro la bocca, e a man a mano
parole vi ho formate; non tu muto,
o a popol circonciso o dille a strano;
acciò tu, baldo del divin aiuto,
strugga, disperda, svella, pianti e dricci
quel che in le spine fin ad or è suto;
acciò le fredde voglie, i petti arsicci
quelle riscaldi, questi ammolli e bagni
e i molli troppo induri ed animassicci ;
acciò con giusti detti e sacri bagni
prepari l’alme, ed io, venendo appresso,
il mal nel buono, il buon nel meglio cagni.
Cosi parlò l’eterno Figlio; ed esso,
gentil suo precursore, in spirto alzossi
e disse fuor quel ch’era dentro impresso:
— Insole, udite, e voi, popoli, smossi
dal vero, sol tendete a me, ch’eletto
da Dio nel ventre fuor di quel mi scossi!
Post’ha la bocca mia, ch’alcun rispetto
nel dir lo ver non aggia, e come spata
radente il capo v’apra, il fianco, il petto.
Io di sua man sott’ombra fida e grata
sono il suo dardo scelto, ed esso il prome,
esso il rimette in faretra dorata.
A me non ancor nato ha posto nome
confatto all’esser mio fulmineo e baldo
e che terrá superbia per le chiome.
Non contra borea ed aquilon piú saldo
stiè mai si forte quercia, com’io a’colpi
degli empi farisei, del re ribaldo.
Non varrá lor entr’esser lupi e volpi,
fuor pecorelle e semplici colombe;
sará chi ipocrisia disnervi e spolpi.