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lettera xix | 105 |
risparmia il solito intercalare: — Iacopo! Iacopo! questa tua
indocilitá ti fa divenire misantropo. — E ti pare che, se odiassi
gli uomini, mi dorrei, come fo, de’ lor vizi? Tuttavia, poiché
non so riderne e temo d’imbrattarmi, io stimo miglior partito
la ritirata. E chi mi affida dall’odio di questa razza d’uomini
tanto da me diversa? Né giova disputare onde scoprire per chi
stia la ragione: non lo so, né la pretendo tutta per me. Quel
che importa di sapere, si è (e tu in ciò sei meco d’accordo)
che quest’indole mia schietta, ferma, leale, o piuttosto ineducata, tenace, imprudente, e la religiosa etichetta, che veste d’una
stessa divisa tutti gli esterni costumi di costoro, non si confanno, perché davvero io non mi sento in umore di cangiar
d’abito. Per me dunque è disperata perfino la tregua, anz’io
sono in aperta guerra, e la sconfitta è imminente; perché non
so nemmeno combattere con la maschera della dissimulazione,
virtú d’assai credito e di maggiore profitto. Ve’ la gran presunzione! Io mi reputo men deforme degli altri, e sdegno perciò
di contrafarmi; anzi, buono o reo ch’io mi sia, ho la generositá o, di’ pure, la sfrontatezza di presentarmi nudo e quasi quasi
come la madre natura mi ha fatto. Che se talvolta io dico a
me stesso: — Pensi tu che la veritá in bocca tua sia men temeraria? — io da ciò ne desumo che sarei matto, se, avendo trovato
nella mia solitudine la tranquillitá de’ beati, i quali s’imparadisano nella contemplazione del sommo bene, io, per... «per
evitare il pericolo d’innamorarmi» (ecco la tua stessa espressione), mi commettessi alla discrezione di questa turba cerimoniosa e maligna.
LETTERA XIX
Padova, 29 decembre.
Gran tedio di vita in questo paese! Grida a tuo senno, a Padova non so che farmi: anziché divenir piú saggio, io non fo che addormentare l’animo e sepellire l’ingegno. E non è ch’io m’inganni; io mi sto qui buono a nulla: duro fatica a concepire