Vai al contenuto

Pagina:Francesco Sabatini - Il volgo di Roma - 1890.pdf/227

Da Wikisource.

Feste e canti della plebe romana 213

l’oda la giovane cui mal s’agguaglia,
deforme coppia, quell’anticaglia.
Te insigne, o Telefo, per crin ben colto,
te al puro vespero pari nel volto,
Rode desidera; giunta al momento
me strugge Glicera a foco lento.1


Passavano le tazze in giro e sull’orlo volavano sorrisi e baci. 2

Rose, calici, canti, ecco la vita libertina romana.

L’elegante Catullo, stretto in nervoso abbraccio, declama a Lesbia, o Clodia, la sua formola erotica:

«Viviamo, o Lesbia mia, e amiamo. Quando una volta il rapido giorno sia declinato ci resta una lunga notte di sonno...»3

I ricchi, o patrizi, avevano imparato l’arte dei piaceri dalle leggende plebee, perchè in principio vi era la plebe; ma la plebe beveva e amava, cantava e danzava, come e quando lo dettava la natura e la consuetudine... eterno baccanale, feroce, osceno alla Suburra, profumato, licenziosissimo sul Palatino.

I canti popolari celebravano le ninfe del quadrivio, mentre i poeti classici dedicavano versi ai conviti di Mecenate, alle cene di Lucullo, alle veneri patrizie, alle greche liberte.


  1. Orat., lib. III, od. XIX, traduzione del Gargallo.
  2.         ... Quando propinat.
    Verro tibi, sumitque tuis contacta labellis pocula ...

    (Giov., Sat., 1, V).

  3. Catull., Ad Lesbiam.