Pagina:Frezzi, Federico – Il quadriregio, 1914 – BEIC 1824857.djvu/162

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156 libro secondo

     100Alquanto inver’ di lui li passi pinse
sol per parlarli; ma la dea non volle
ch’io parlassi a colui, che sé estinse;
     ché, se fortuna il ben temporal tolle,
non lieva però mai d’alcun la spene,
105s’egli da se medesmo non è folle.
     — Tu vederai, se tu ammiri bene,
non tremar nullo, ch’abbia sé ucciso:
risguarda, ed io dirò onde ciò viene.—
     Però io riguardai con l’occhio fiso;
110poi, vòlto a lei, diss’io:— Perché non trema
qualunque dalla vita ha sé diviso?—
     Ed ella a me:— Quando la spen si scema
tanto in alcun, che niente rimane,
colui non ha amor, né anco téma;
     115ché le paure e l’allegrezze umane
procedon da speranza e dall’amore,
che porta l’uomo a vostre cose vane.
     Però, se tutto, amor e spene, more,
mor la letizia, che da lor procede,
120e la paura, e sol ha poi il dolore.
     Il qual il disperato fuggir crede,
fuggendo sé, e uccide allor se stesso
con crudeltá, credendo far mercede.
     E, se speranza non avesse appresso
125il fren d’alcun timor, cresceria tanto,
che faria stolto per lo troppo eccesso.
     Cosí il timor, se seco non ha accanto
dolcezza di speranza, tanto teme
e tanto vien in doglia ed in gran pianto,
     130che nol sostiene e sé di morte oppreme;
ch’ogni timor all’uomo è sí a noia,
che piú tosto vuol morte che lui inseme.
     Nulla allegrezza e nulla cara gioia
è tanto dolce, che rispetto a quella
135non sia piú amaro all’uom temer che moia.