Pagina:Garrone-Ragazzoni - Edgar Allan Pöe, Roux Frassati, Torino, 1896.pdf/162

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Da questo punto, l’amante non scherza più; egli non s’avvede neppur più che vi sia del fantastico nell’attitudine dell’uccello. Egli parla di lui come di un

feral, sinistro, magro, triste, infausto augel di Pluto,

egli sente i di lui occhi riempirlo di spavento.

Questa evoluzione del pensiero, questa immaginazione nell’amante, ha per iscopo di prepararne una analoga nel lettore, di guidarlo alla scena suprema che sta per avvicinarsi il più direttamente ed il più rapidamente possibile.

Col finale propriamente detto, espresso dal — mai più — del corvo, risposto al quesito finale dell’amante (se cioè egli troverà l’innamorata in altra vita), il poema, nella sua fase più chiara, più naturale — un semplice racconto — può essere considerato finito.

Fino a questo punto le cose sono rimaste nei limiti del comprensibile, del possibile.

Un corvo ha ritenuto, a furia di averla sentita ripetere, una sola parola: mai più; ed essendo sfuggito alla sorveglianza del suo proprietario, è ridotto, sulla mezzanotte, durante l’imperversare di un turbine, a chieder l’asilo ad una finestra da cui brilla ancora una luce: la finestra di uno studioso, immerso nei libri, e nel ricordo di una innamorata morta.

La finestra si spalanca, egli entra, va ad appollaiarsi nell’angolo più adatto, fuori dalla portata immediata dello studioso, che, divertendosi dell’incidente e del bizzarro contegno dell’ospite, gli domanda, scherzando, e senza neppure attendersi una risposta, il suo nome.