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all’arte in che divenne sì celebre, con amore compartendogli i primi insegnamenti. L’ingegno musicale del giovinetto per più segni manifestavasi, ma volendone recare alcuno diremo di questo particolarmente che ci fu narrato da un amico nostro di Catania, che essendo al tempo della sua prima giovinezza le truppe inglesi in quella città, ed udendo egli le bande militari esercitarsi per le vie, come usano fare i fanciulli, le seguitava con grande attenzione, indi ritornato a casa ponevasi a notar sulla musica, le composizioni che aveva udito. La buona influenza dell’avo e queste dimostrazioni dell’istinto dell’arte fecero sì che alcuni membri del Decurionato municipale avessero a proporre in consesso che a lui venisse fissato un assegnamento ond’essere a spese patrie educato nel Conservatorio di Napoli. Al che avendo consentilo i Decurioni ed il Governo, nell’anno 1819, e quindi nell’età d’anni diciasette, passò nel reale stabilimento, ove subitamente trovò occasione per distinguersi su’ suoi condiscepoli. Dopo aver imparato a trattare alcuni stromenti, e dopo avuta cognizione degli elementi del canto, apprese il contrappunto dal maestro Tritto, nel quale studio si rese espertissimo nel solo corso di due anni. Il nostro amico di Catania ci assicura ch’egli ebbe lezioni anche dal bravissimo contrappuntista Raimondi, ma non sappiamo se nel Conservatorio od altrove. Allora poi che incominciò a comprendere che la scienza de’ numeri non è la sola fonte cui debbansi attingere quegli elementi che inceppano ed aggravano gl’intelletti meschini, ma invigoriscono e sollevano i robusti, venuto a morte il primo suo precettore, divenne discepolo di Zingarelli, di quel venerando, come si esprime il signor Beltrame, che educato alle armonie del Paisiello e del Cimarosa, fu per avventura il solo tra’ suoi contemporanei che veramente sentisse quale dovea essere la musica vocale del teatro melodrammatico. Dietro una guida sì luminosa versò per tre anni assiduamente fra le classiche composizioni di Durante, di Pergolesi, di Paisiello, di Cimarosa, di Jomelli, di Paër, non dimenticando quelle de’ moderni luminari Mayr e Rossini.
La gratitudine de’ paterni insegnamenti rese al maestro affezionatissimo l'apprenditore, e prova della venerazione in cui lo tenne, siano le frequenti parole di riconoscenza e di lode che le tante volte furono udite uscirgli dal labbro, e la dedica che gli fece della migliore traile sue creazioni, la Norma. Su questo punto amiamo insistere alquanto per dimostrare come infondatamente il signor Fétis venisse riferendo che a piccola cosa si riduce ciò che Bellini avea dai sunnominati maestri imparato per poter affermare ch’egli non doveva considerarsi come l'alunno d’una grande scuola, ma semplicemente come un compositore formatosi per istinto da sè stesso, e come a torto volesse far credere che nessun frutto avesse egli raccolto da tale educazione perchè Zingarelli, asserisce, il quale pur possedeva dell’antica musica tradizioni sufficientemente buone, poco pensiero si prendeva degli allievi del conservatorio alle sue cure confidati, nè dava loro che scarse lezioni, e perchè da gran tempo in poi gli studj musicali in Italia, e sopra tutto a Napoli, erano assai cattivi.
Bellini che la natura avea donato di squisito musicale sentimento, e d’un’intelligenza sovranamente giudiziosa, dee riguardarsi come allievo della scuola di Zingarelli, perchè tale fu realmente, e perchè egli stesso confessava d’aver moltissimo imparato da’ suoi ammaestramenti (4). Frutto di questa buona corrispondenza tra il precettore e lo scolare fu quel vincolo d'affetto che strettamente li tenne legati, finché un senso di gelosia si gettò nell’animo dell’autore della Giulietta e Romeo quando l’altro compose i Capuleti ed i Montecchi. Non solo Zingarelli lo istruì, ma fu il primo veicolo della fortuna di lui coll’accompagnarlo di commendatizie per molte illustri famiglie di Milano, quando vi si recò la prima volta partendosi da Napoli per correre la teatrale carriera. Esso lo tenea costantemente informato di tutte le sue avventure, e allorché la Straniera ebbe sulle scene di Milano quell’esito che tutti sanno, alla partecipazione che gliene diede prontissima Zingarelli rispose con una lettera piena d’amore, la quale incominciava colle sante parole: Benedite Iddio!
E storia di fatto adunque che Bellini si rese benemerito all’arte non solo per l’opera ch’ei pose grandissima a migliorarla col naturale suo ingegno, ma per la buona istruzione ch’egli avea ricevuta da’ maestri suoi, e sopra tutti da Zingarelli: perciò ad ambedue vuol darsene la meritata lode; e l’illustre biografo di Brusselles fu poco giusto verso amendue, quando pingeva l’uno come scolare di nessuna scuola, l’altro come educatore poco sollecito de’ suoi discepoli.
Ma ritornando a Bellini senza rinomanza, diremo come egli, dopo aver fatto conoscere a Napoli alcune brevi composizioni strumentali, e parecchi lavori di musica sacra (5) produsse nel 1824 sulle scene del piccol teatro del collegio reale di musica la sua prima opera col titolo di Adelson e Salvina, e su quelle del gran teatro di San Carlo nel 1826 l’altra intitolata Bianca e Fernando. Sebbene questi lavori si risentissero ancora della giovenile istruzione, non dimeno, perchè qua e colà portavano l’impronta del genio nascente, fecero pel futuro concepire grandissime speranze. Le speranze divennero realtà quando nel carnovale del 1827, sulle grandi scene del nostro maggior teatro fece sentire il suo
Pirata.
G. Vitali.
(Sara continuato.)
NOTE
(1) In prova di ciò che affermiamo ci basti il riferire
che nel Dizionario della conversazione stampato in
Lipsia nel 1832, leggesi che Bellini era nato nel 1808,
cioè sei anni dopo la sua nascita, e che era maestro di
cappella a Venezia. Che nel Pirata tolse specialmente
a modello Rossini, e che scrisse con molte colorature e
fioriture conformemente al gusto attuale italiano, ecc., ecc.
(2) Fin da questo principio si palesa l’inesattezza dei biografi; perocché alcuni, come notammo, lo fecero nascere nel 1808, altri nel 1804, e tra questi ci spiacque di dover noverare lo stesso signor Beltrame, che quest’unica volta soltanto fu men preciso del signor Fétis. siam tenuti all’epoca riferita da quest’ultimo perchè crediamo che sia la vera e per verbali assicuranze che ci furon date da chi dallo stesso labbro di Bellini udì numerare gli anni dell’età sua, e perchè in vero combina col discorso del Musumeci dalla cui guida mai non crediam dipartirci, siccome quegli che più d’ogni altro era in occasione di ben conoscere le cose che a Bellini riguardavano. Dicendo egli nel suo ragionamento recitato nella primavera del 1832 che il bravo maestro catanese non era ancor pervenuto a trent’anni di età, verrebbe ad uscirne appunto l’epoca da noi segnata. Nondimeno a sciogliere questo fatto da ogni dubbio, abbiam pregato persona di rilevare l’epoca precisa dai registri battesimali di Catania; e sì tosto che ne avremo notizia ne farem partecipi i lettori, ov’ella discordasse dai nostro dato.
(3) Ebbe tre maschi «tre femmine, la più giovane delle quali per nome Maria è degna sorella del bravo maestro per bella dote d’ingegno e per venustà di forine. Senz’essere troppo dotta di musica canta con mollissima abilità. Degli altri due fratelli uno tratta esso pure la musica, l’altro è contabile.
(4) Il nostro amico compatriota di Bellini ci narra anche questo fatto intorno al tempo della sua dimora nel Conservatorio. Per quella brama ch’era in lui vivissima di perfezionare le sue opere recav egli le prime sue composizioni a Zingarelli sparse tutte di sgorbj, di cancellature e di pentimenti; del che soventi volte deridendolo i compagni, Zingarelli ne lo giustificava ed encomiava dicendo loro: Carta sporca, musica pulita.
CRITICA MELODRAMMATICA
I DUE SERGENTI,
Opera del M.° A. Mazzucato (1).
Signor Estensore.
M’assegnaste l’incarico di tenere informati i lettori della Gazz. Mus. delle modeste vicende di questo piccolo ma elegante teatro Re, ed eccomi pronto a soddisfare alla bell’e meglio alla incombenza ricevuta.
Dappoiché vi ho parlato della mediocre riuscita dell’operetta buffa del giovine Manusardi null’altro di distinto nè di nuovo avemmo su queste scene, fino alla sera del 15 corr. Si continuarono con poco gradita alternativa le recite della Saffo, e quelle del Columella, e vi accerto io che il passaggio dallo stile tutto a vernice tragica e a sentimentalismo lirico della prima di queste due Opere, al fare spicciativo, gajo e dirci quasi casalingo della musichetta di Fioravanti, c’è il medesimo divario che corre tra una novella del Lasca e di quel buon messere di Franco Sacchetti, a uno squarcio oratorio del Barbieri o a un’epistola estetica del Giordani, da un sonetto vernacolo colla coda del faceto cantore di Giovanin Eongée aduna Canzone del cav. Felice Romani, tutta stringata nel sublime purismo rettorico. Eppure queste varietà a me, amante dell’eclettismo artistico, piacciono moltissimo, e mi danno a capire che gli spettacoli modestamente musicali di questo teatrino sono diretti da chi abborre gli sbadigli che suol destare altrove la vanitosa monotonia del gran genere melodrammatico. Oh il gran genere melodrammatico è pur la bella cosa, c mostra, quando sia trattato da fantasie robuste come quella di Rossini o da ingegni mirabilmente proteiformi come quello di Donizetti, a che punto di altezza può giugnere la potenza dell’arte de’ fefautti, ma guai se quel genere maiuscolo di musica non è eseguito con irreprensibile accordo c perfezione di tutti i mezzi materiali e morali! Guai se, per esempio, in un’Opera del gran genere, le negligenze della parte scenica, la povertà del personale, la trascuranza più grossolana del tutt’insieme sono messe a contrasto cogli sforzi di due o tre attori principali indarno impegnati a far alla meglio gli onori del capolavoro affidato al loro ingegno! Io, per me, meglio che assistere a’ spettacoli musicali di questa specie, ne’ quali la boria delle pretese fa a pugni col pigmeismo dei mezzi, amo passar la sera ai Burattini, ove almeno, se m’annojo, posso addormentarmi in tutta pace senz’essere ad ogni istante destato in soprassalto da inconditi strepiti e da stonazioni per accomandita!
Ma è meglio che lasci da un lato questo tristo argomento salti a pie’ pari a dirvi alcuna cosa dei Due Sargenti del maestro Mazzucato.
Pregio principale di questo spartito è l’impronta sempre bene conservata dello stile di mezzo carattere sparso a luogo opportuno di tinte ora patetiche, ora gioconde, or passionate, or semicomiche. I diversi pezzi onde si compone sono svariati nei pensieri, nelle forme, negli sviluppi a seconda della varietà delle situazioni, ma l’unità di concetto che deve significare la natura dell’azione drammatica, tutta del genere domestico e popolare, è sempre con savio criterio conservata. E questo è un merito di cui il pubblico de’ nostri teatri o grandi e piccoli non è avvezzo a tener gran conto, e nondimeno dovrebbe essere il più lodato e marcato come quello che risparmia agli uditori di buon senso il disgusto di vedere assurdamente confusi nel medesimo soggetto drammatico lo stile famigliare coll’eroico, il cavalleresco col pastorale, I’ anacreontico col sentimentale ed anche tal volta coi buffonesco. Gli esempi di questa ridicola mescolanza di generi non mi mancherebbero anche se volessi andarli a prendere dai più applauditi repertori. - Quanto al Mazzucato non crediate già che egli, all’uopo di dare alla sua Opera questa tinta caratteristica dominante, abbia abusato del fraseggiare musicale arido anzichenò proprio della scuola che pretende si debba dar valore, con insistente elaborazione di stile declamalo e di concertazione, a tutte le modificazioni più minute della dizione drammatica del libretto. Se egli alcune rade volte
inciampa in questo difetto contrario alle norme del com-
- ↑ Riprodotta al Teatro Re, la sera del 15 corrente.