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432 GAZZETTA MUSICALE DI MILANO greco pastore; una grand’arpa scolpita a dodici corde; un anduigue curiosissimo; un tamburo di Gambia, alto tre piedi, che il musicista seduto di sopra, picchia colle due mani; grandi chitarre di zucca, da cinque e sei corde della Gambia, del Senegai e di Gabou; una storta del Gabou; flauti o meglio oboè di canna di varii popoli della Senegambia, oltre a tamburi di varie forme dello stesso paese.» Testé inoltre la signora Paolina Viardot ha regalato al museo la sua raccolta di istrumenti asiatici; il sig. Gilson, fabbricante di pianoforti all’Isola della Reunion, ha regalato tre strumenti curiosissimi, ed il signor Jacobson, negoziante di Stocolma, ha inviato un bellissimo zuike d’avorio, i cui ornati scolpiti fanno credere appartenga al tempo della Reinaissance. Sabato, 28 dicembre. Le disposizioni al massacro che da molti anni mostra quel benedettissimo Santo Stefano, che Dio se Labbia in gloria, avrebbero dovuto sconsigliare le imprese dal porsi sotto la sua protezione. Ma la devozione delle imprese tocca il fanatismo e la superstizione; si fanno pigliare a scapellotti, ma non importa, è Santo Stefano, benedetta la mano che li somministra. Ho avuto occasione più volte di dire parecchie ragioni per le quali sarebbe suggerimento della più volgare prudenza aprire il teatro massimo in una sera che non sia quella di Santo Stefano, e non voglio ripetere cose che si sanno a memoria, tanto più che ad esser giusti, nel fiasco di giovedì passato la mano del Santo n’on ei ha nulla che fare, e credo che in tutti i trecento sessantacinque giorni dell’anno quello spettacolo di sei ore che ei fu dato sarebbe accolto collo stesso sbadiglio. Avrò torto a dirlo (ei è della onesta gente almeno che penserà cosi) avrò torto a dirlo, ma il Ruy-Blas del maestro Marchetti colle molte bellezze che contiene, e non ostante la straordinaria fortuna del suo viaggio circolare in Italia, non è nei primi atti conformato per modo da tener desto T interesse. Se si dovesse considerare il giudizio dell’altra sera, e per fortuna non è così, come la ratifica del primo giudizio, converrebbe sfrondare di molto il buon successo di parecchi anni sono; ma per me e per tutti quel buon successo rimane quello che era, frutto della simpatia per un giovine e poderoso ingegno che si rivelava, e dell’interpretazione di Tiberini che dava al protagonista una forza drammatica straordinaria nelle situazioni più importanti. Questa volta nel Ruy-Blas manca appunto il Ruy-Blas. Il tenore Campanini, a cui abbiamo due anni sono fatto accoglienze gentili, ei è ritornato come logoro dai trionfi inglesi; stona di frequente, vacilla nelle note basse e nelle medie e si arrampica con fatica alle acute. È una disillusione dolorosa che non è molto compensata da un po’ (assai poco) di franchezza acquistata colla pratica. Del resto, toltone il Campanini, lo spettacolo non si può dire infelice; anzi tutto Maurel è un eccellente Don Sallustio > pieno di eleganza, intonato, sicuro. della sua voce, disinvolto ed accurato come sono in generale gli artisti francesi; e la signora Krauss (Regina) è una ottima artista, che compensa largamente il timbro come oscuro e poco gradevole della sua voce coll’abilità del metodo, colla sicurezza dell’intonazione, coll’espressione e col sentimento che dà al canto e colla forza con cui traduce il dramma. Quanto al basso Milesi non gli si può fare alcun rimprovero; pose molt’anima nella sua parte, ha un magnifico vocione lievemente stentoreo che sta benissimo al suo carattere di vecchio fanfarone, e non falla mai nel canto, e sta in scena come pochi bassi sanno fare. Infine la signora Flora Mariani, se non si fanno confronti, fu una Casilda abbastanza lodevole, specialmente nell’ultimo atto. E i cori fecero bene la loro parte, e l’orchestra benissimo... — Per una riproduzione, via, non ei è molto male. Nondimeno, salvo rari e non universali applausi nel terzo e nel quarto atto, l’opera passò gelidamente. Come si spiega ciò? Non si spiega punto. Vi hanno nella logica dei nefasti teatrali di siffatte apparenti contraddizioni che non si spiegano, e che meglio è non spiegare. 0 m’inganno o il freddo della rappresentazione di giovedì deve aver fatto venire al gagliardo intelletto del Marchetti la febbre della produzione. Che tarda egli a darci il Gustavo Wasa? Lo aspettiamo con sincera e confidente fiducia. Perchè il capitombolo dell’inaugurazione fosse perfetto, il coreografo Pallerini, che abbiamo visto tante volte sugli altari del palcoscenico, l’altra sera fece la sua brava ruzzolata nella polvere. Per un coreografo che ha talento il guajo è lieve; si sa che i coreografi partecipano della natura dei ballerini e quando cadono non si fanno male. I sette peccati mortali sono davvero sette peccatacci, e non meritano proprio l’assoluzione; abbonda la mimica; i ballabili o troppo lunghi, o troppo confusi, i colori degli abiti mal combinati, le scene meschine, la musica ad ora ad ora buonina, in generale senza carattere, senza novità — tutto contribuì a far più nere le sette colpe del Pallerini. L’argomento dei Sette Peccali non era cattivo; una tela che annodasse le sette fila peccaminose ei era; in un momento di vena il bravo coreografo avrebbe potuto dare ad ogni peccato una tinta coreografica speciale, e finire con tutti sette insieme in qualche luogo di ritrovo comune, nell’inferno per esempio; invece molti peccati sono assolutamente mimici, e così diventano proprio imperdonabili, e tutti sono senza carattere speciale. L’ultima scena della Lussuria è un disinganno atroce per il colto e l’inclita. La modestia, la virtù e il pudore della coreografìa moderna portano il gonnellino più corto delle lussuriose del Pallerini. E passi ciò, chè dopo tutto una lussuria vestita cogli abiti della verecondia in coreografia può sembrare un’arditezza da incoraggiare; ma almeno Pallerini ei avesse dato ballabili di effetto, come ha fatto tante volte, qualche novità d’intreccio di colori; nulla; quei sette peccati farebbero arrossire il più meschino peccatore... Peccato! Non voglio dimenticarmi di dire che la prima ballerina, signora Fioretti, si fece applaudire, che è una danzatrice piena di garbo. Sant’Antonio solo che aveva il dono dell’ubiquità potrebbe fare degnamente T inventario dell’eredità lasciata da Santo Stefano. Segnalo prima di tutto un altro semi-tonfo coreografico, tanto per sbarazzarmi dei fiaschi, voglio dire il ballo liriëla, al teatro della Canobbiana. Invece la compagnia Pietriboni che recita colà piace con ragione. Il trionfo più indiscutibile è quello dei fratelli Grégoire, al teatro di S. Radegonda. Ho pronosticato male la settimana passata delle sorti di questo teatro; le operette francesi rappresentate come le rappresentano i fratelli Grégoire sembrano altra cosa da quel che sono, o ei parvero, ed hanno tutto il fascino della novità. Non c’è pericolo che alcuno stoni, nè cori, nè artisti e nemmeno l’orchestra la quale fa benino il suo compito. Meynadier nello scorso anno ei aveva fatto venir a nausea il genere; i fratelli Grégoire quasi lo riabilitano. La Princesse de Trebisonde con cui si inaugurò la stagione ebbe un successo schietto e rumoroso; quello squallido teatro non ha mai visto