Pagina:Ghislanzoni - Abrakadabra, Milano, Brigola, 1884.djvu/171

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Erano le più dolci note che mai si modulassero pel labbro di una vergine innamorata. Quelle note, attraversando l’azzurro padiglione, parevano il canto di un cherubino smarrito negli spazii del firmamento.

E davvero Fidelia aveva dimenticato la terra. Ella si sentiva isolata nel suo piccolo gabinetto come una sirena sugli scogli dell’oceano. Immersa negli elementi più vergini del creato, nell’aria e nelle acque, la sua anima possedeva le ali bianche e il melodioso sospiro del cigno.

Le parole della sua canzone esprimevano questi pensieri gentili:

«Iddio ha creato la terra, ma l’amore soltanto ha creato il paradiso.

«No! questo non è il paradiso, dacché, aggirandomi fra i miracoli della creazione, io sento che il creatore è lontano.

«Quando il creatore sarà tornato, quando l’aria di questo giardino sarà l’alito della sua bocca o il dolce fremito del suo cuore, allora io potrò dire: egli mi ha riportato il mio paradiso.

«Oh venga presto colui che può creare il paradiso, perché il paradiso è in lui, soltanto in lui!»

Il canto di Fidelia era una estasi voluttuosa.

Mentre il labbro scioglieva le note, mentre il cuore modulava gli accenti, lo sguardo della fanciulla errava nelle illusioni di un mondo fantastico.

Questo mondo fantastico si creava dinnanzi a lei per una combinazione di specchi metallici, i quali ritraevano perfettamente un cielo di zaffiro, un lago placido e sereno. Gli occhi di Fidelia aspettavano che quella solitudine di spazio e di acque si animasse improvvisamente di una figura umana, di una figura che per lei, per la fanciulla innamorata, avrebbe rappresentato il Dio animatore.