Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano IX.djvu/253

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dell'impero romano cap xlviii. 247

menti precari e di sì curta durata. Ond’è che l’istoria sublima e dilata l’orizzonte delle nostre idee. L’opera di alcuni giorni, la lettura di alcune ore ci schierarono d’innanzi sei secoli intieri, e la durata di un regno, d’una vita non abbracciò che un momento. Sta sempre la tomba di dietro al soglio; l’atto colpevole d’un ambizioso non precede che d’un istante quello per cui vedesi quindi spogliato della preda, e l’immortale ragione, superstite alla loro esistenza, sdegna li sessanta simulacri de’ Re che ci passarono davanti lasciando appena una debole immagine nella nostra mente. Riflettendo però che in tutti i secoli e in tutte le contrade ha l’ambizione sottomesso del pari gli uomini alla sua irresistibile potenza, cessa il filosofo di maravigliare; ma non si limita solo a condannare sì fatta vanità, indaga pure il motivo d’una bramosìa tanto universale dello scettro. In quella successione di principi, che tennero l’un dopo l’altro il trono di Bizanzio, non puossi a ragione attribuirla all’amor della gloria, o della umanità. La sola virtù di Giovanni Comneno si mostrò benefica e pura. I più illustri de’ sovrani, che precedono o seguono quel rispettabile Imperatore, marciarono, con certa destrezza e vigore, pei sentieri tortuosi e sanguinolenti d’una politica d’amor proprio. Chi esamina attentamente i caratteri imperfetti di Leone l’Isauro, di Basilio I, d’Alessio Comneno, di Teofilo, di Basilio II, e di Manuele Comneno, bilanciansi la stima e la censura in modo quasi uguale; il rimanente della folla degli Imperatori non potè fondare speranze che sull’obblivione della posterità. È stata forse la felicità personale il fine e l’oggetto della loro ambizione? Non rammenterò le massime vulgari