Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano VIII.djvu/329

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dell'impero romano cap. xlv. 325


In mezzo alle armi de’ Lombardi, e sotto il dispotismo de’ Greci, noi investigheremo di nuovo il destino di Roma1, che avea aggiunto, verso il fine del sesto secolo, il più tristo periodo della sua abbiezione. La traslazione della sede dell’Impero a Costantinopoli, e la perdita successiva delle province, aveano disseccato le sorgenti della pubblica e della privata opulenza. Il grand’albero, sotto la cui ombra le nazioni, della terra s’erano riposate, nudo ormai trovavasi di fronde e di rami, e l’arido suo tronco era lasciato marcir sul terreno. I ministri del comando, ed i messaggeri delle vittorie, più non s’incontravano sulla via Appia o sulla Flaminia: e l’ostile avvicinarsi de’ Lombardi era frequentemente sentito, e continuamente temuto. Gli abitanti di una potente e pacifica capitale, che visitano senza inquieti pensieri i giardini dell’addiacente contrada, difficilmente si faranno un’immaginazione della infelicità dei Romani. Con mano tremante essi aprivano e chiudevan le porte; scorgevano dall’alto delle mura le fiamme delle campestri lor case, ed udivano i lamenti de’ loro fratelli, che venivano appaiati come cani, e trascinati in distante schiavitù al di là del mare e de’ monti. Tali perpetui terrori doveano annichilare i diletti, ed interrompere i lavori della vita rustica; e la campagna di Roma fu prestamente ridotta allo stato di uno spaventoso deserto, in cui sterile è la terra, impure son l’acque, e l’aere spira insalubre. La curiosità e l’ambizione più non

  1. Il Baronio ha copiato ne’ suoi Annali (A. D. 590 n. 16; A. D. 595 n. 2 ec.) i passi delle Omelie di San Gregorio, che mettono in chiaro lo stato sciagurato della città e della campagna di Roma.