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libro primo - capitolo nono 235


piú alla forma che alla sostanza delle cose, moltiplicare le clausule e i temperamenti1 e cercar nelle frasi una precisione quasi matematica, anzi che contentarsi di ponderarle alla buona coll’uso pratico e colla convenienza che hanno verso il fine a cui s’indirizzano. Né questo amore dell’esattezza soverchia dá loro il vantaggio, notato dal Giordani nei giuristi latini, della sobrietá greca, essendo verbosi anzi che eloquenti2; perché la parsimonia e misura nel dire nasce dalla copia delle cognizioni, e quanto altri piú scarseggia d’idee tanto suole abbondare nelle parole3. Disprezzano il vario sapere, e specialmente la filosofia che ne è la cima, senza la quale (purché sia soda e degna del suo nome) si ha di rado una giusta notizia delle cose e degli uomini; nella qual disciplina gli antichi giureconsulti erano valentissimi. E non essendo avvezzi a pensare, sono piú atti a chiacchierare che a fare, piú a ritenere e ad impedire che a muovere, quanto fecondi di obbiezioni e di dubbi tanto sterili di partiti utili e di forti risoluzioni, come prolissi nel sentenziare cosí impacciati e timidi nell’eseguire. E nella esecuzione essi inclinano piú al tirato che al largo, piú al gretto che al grande, piú all’apparente che al sostanziale, piú a resistere fuor di proposito che a condiscendere saviamente, piú ad inceppare con mille pastoie che ad agevolare la libertá dei cittadini. E siccome l’intento delle operazioni è la riuscita, essi credono che a conseguirla bastino i maneggi e gli artifizi, riputando gran maestro di Stato e buon conoscitore degli uomini chi sa aggirarli e deluderli, senza avvertire che queste arti provano a tempo e non sempre, nei piccoli affari e non in quelli di rilievo, nella vita privata anzi che nella pubblica, pei successi immediati e passeggieri anzi che pei durevoli in cui pure è la somma del tutto, e che arbitro dell’avvenire è soltanto chi sa antivederlo e preoccuparlo. La fortuna di costoro può levare un grido momentaneo; ma a mano a mano che si studia bene

  1. Che in Piemonte con attica eleganza si chiamano «ammendamenti».
  2. «Sermonis nimius erat» (Tac., Hist., iii, 75).
  3. «Satis loquentiae, sapientiae parum» (Sall., Cat., 5).