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libro secondo - capitolo quinto | 393 |
forte impulso e coll’autoritá suprema del grado ne spianerebbe l’esecuzione.
Testé io movea alcune critiche a Camillo di Cavour, e forse alcuno de’ miei lettori ne avrá conchiuso che io gli porti mal animo e parli per rancore dei nostri dissidi politici nel quarantotto. Ma costui s’inganna, ché io m’inchino all’ingegno, e il Cavour è ricco di questa dote. Quel brio, quel vigore, quell’attivitá mi rapiscono; e ammiro lo stesso errore magnanimo di trattare una provincia come fosse la nazione, se lo ragguaglio alla dappocaggine di coloro che ebbero la nazione in conto di una provincia. Perciò io lo reputo per uno degli uomini piú capaci dal lato dell’ingegno di cooperare al principe nell’opera di cui ragiono. Ben si richiede che, deposte le preoccupazioni di municipio, egli entri francamente e pienamente nella via nazionale, che rinunzi alla vecchia politica di casa Savoia e alla meschina ambizione d’ingrandire il Piemonte in vece di salvar l’Italia, e si persuada che questa politica, la quale fu altre volte di profitto e di lode a coloro che la praticarono, oggi sarebbe (tanto i tempi sono mutati) di ruina e infamia certissima ai complici ed al paese. Ma il Cavour è capace di tal mutazione, perché il vero ingegno è progressivo; e siccome non rifiuta di abbandonare le vie men buone a cui l’educazione o gli accidenti lo fecero declinare per un istante, cosí egli è atto a discernere le cattive che menano al precipizio. L’impuntarsi contro i documenti della ragione e della esperienza appartiene soltanto alla mediocritá fastidiosa e incorreggibile dei Dabormida e dei Pinelli, i quali, se vivessero cent’anni, sarebbero all’ultimo cosí ciechi, cosí ostinati, cosí confitti nelle loro false opinioni come al presente1. So che gli uomini di Stato hanno d’uopo sopra ogni cosa della pubblica fiducia, e che il popolo (ragionevolmente) non ne è largo di leggieri a coloro che per qualche atto anteriore
- ↑ «Sicut equus et mulus, quibus non est intellectus» (Ps., xxxi, 9). «L’uomo non ha nemico maggiore che se stesso, e quello massime che, per non credere ad altri, conoscendo d’errare, vuol piuttosto stare nella sua perfidia con suo danno, che, mostrando di non sapere, con suo utile accettare il consiglio degli amici» (Firenzuola, Animali).