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CAPITOLO OTTAVO

DEGLI SCRITTORI

Se l’etá nostra non fosse avvezza a ogni sorta di paradossi, non si vorrebbe quasi credere darsi alcune sètte (come abbiamo veduto) che hanno il magistero dello scrivere per indizio del non saper operare, e reputano l’uomo di Stato tanto piú inabile quanto è piú fornito di dottrina e di previsione. Scema tuttavia lo stupore di cotal sentenza, se si avverte che i municipali e i puritani professandola mirano a mantenere il loro credito, che tosto verria meno se il contrario parere prevalesse. Gli antichi, che erano altri uomini, non la pensavano in tal forma, giudicando che non si possa ben governare gli Stati senza un certo capitale di scienza politica, fondata nella notizia degli uomini e della storia. Credevano inoltre che se il sapere è necessario, lo scrivere sia utile, non solo in quanto lo testimonia e lo sparge nel pubblico, ma eziandio in quanto lo lima, lo accresce, lo perfeziona. Imperocché chi scrive, dovendo ripassare, meditare, porre insieme a riscontro e svolgere piú o meno minutamente le cose apprese o trovate, le possiede vie meglio che non farebbe tenendole chiuse nel ripostiglio della memoria; onde di rado incontra che si studi bene e si legga non superficialmente da chi non indirizza al comporre i suoi pensieri e le sue letture. Per la qual cosa gli antichi avevano il meditare e lo scrivere per un apparecchio e avviamento a operare; onde molti di quelli che s’illustrarono con grandi imprese furono dottissimi, non pochi anche scrittori; né Caio Mario col suo disprezzo barbarico di ogni coltura ebbe lode, e la sua rozza fortuna fu vinta da quella di Siila, pari o superiore agli uomini