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IL PRODIGO 323


tor, lasse che ve daga un baso de cuor. Me arecordo, che v’ho promesso cento zecchini, e me par che li mente; ma co ve li ho promessi, gera un orbo, che no saveva conosser nè oro, nè arzento, nè merito, nè demerito, nè rason, nè torto, nè convenienza. Adesso son un poco illuminà: ma no tanto che basta, e da qua avanti no me voggio fidar de mi. Consegno tutti i mi interessi in man de mia sorella e de mio cugnà; lasso che i fazza lori, e da lori aspettè la recompensa delle vostre fadighe. Tutto quello che posso far per vu, xe questo, de metterghe in vista el merito della vostra attenzion, della vostra onestà, e de pregarli de trattarve ben. (da sè)

Dottore. Per me, sono un galantuomo, e mi contenterò di quello che si compiaceranno di darmi. (Mi pareva impossibile d’aver a guadagnare in un colpo cento zecchini). (da sè)

Beatrice. Io veramente di queste cose forensi non me ne intendo, e molto pratico non è nemmen mio marito, e però non vorrei che si eccedesse, nè che restasse pregiudicato il merito del signor Dottore. Che fareste voi in tal caso, signora Clarice, se aveste voi da disporre?

Clarice. So quel che farei, se a me toccasse arbitrare.

Beatrice. Vi contentate, fratello, che la signora Clarice decida?

Momolo. Son contentissimo; ghe darave l’arbitrio sulla mia vita, figureve se no ghel darò su sta piccola diferenza!

Beatrice. Dunque l’affare è a voi rimesso; decidete come vi piace. (a Clarice)

Dottore. (Dubito di aver fatto una cattiva giornata). (da sè)

Clarice. Veramente lo spendere con profusione, come sin ora ha fatto il signor Momolo, è una eccedenza viziosa che passa i limiti della generosità, e diventa un difetto. Ma quando si tratta di mantener la parola e di riconoscere un benefizio, è necessario allargar la mano. Dunque io dico che il signor Dottore merita i cento zecchini, e che se ciò fosse in arbitrio mio, glieli darei senza alcuna esitanza.

Momolo. La sentenza no poi esser più giusta, e mi la lodo e la sottoscrivo. Sior Dottor, averè i cento zecchini, no dalle mie