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114 ATTO TERZO


il pregio di una moglie di tanto merito, col minacciarlo di levargliela dalle mani; staccandola per qualche tempo dal di lui fianco, può essere che si ravveda. Donna Eufemia, andate per qualche giorno a vivere con vostro padre.

Dottore. Venite con me, Eufemia; e dopo ci faremo restituire la dote.

Gismondo. Non sarebbe mal fatto di minacciarlo anche di questo.

Dottore. Eccolo qui quel maledetto scrigno. Facciamolo sequestrare, assicuriamoci dei dodeci mila scudi di questa mia sventurata figliuola. (in questo Pantalone esce dall'armadio)

Pantalone. Oimei! Muggier, no me abbandonè. Ah sior auditor, no me la levò per carità! Sior Dottor, vostra fia sarà ben trattada, no la tormenterò più. No, cara la mia zoggia, no ve tormenterò più. V’ho sempre volesto ben, e adesso che ho sentio la vostra fedeltà, el vostro amor, m’avè fatto pianzer per tenerezza. Eufemia, no me abbandonè. Siori, per carità, no me assassinè.

Gismondo. Conoscete voi di averla maltrattata contro giustizia?

Pantalone. Sior sì, lo conosso.

Gismondo. Mi promettete di meglio trattarla per l’avvenire?

Pantalone. Sì, lo prometto. Eufemia, no se crierà più; no se crierà più, sior Dottor.

Dottore. Il ciel lo voglia.

Pantalone. Vien qua, muggier, dame un abbrazzo.

Eufemia. (Cielo, ti ringrazio, sarò libera da una gran pena). (da sè)

Dottore. Caro signor genero, se è vero che avete superata la gelosia, bisognerebbe che superaste anche un’altra cosa.

Pantalone. Coss’oio da superar?

Dottore. L’avarizia.

Pantalone. Mi no son avaro.

Gismondo. Su questo particolare so ancor io qualche cosa. Signor Pantalone, dov’è lo scrigno?

Pantalone. Mi no gh’ho scrigno.

Gismondo. Aprite quella cassa di ferro.

Pantalone. Ah! me volè ammazzar. (grida forte)