Che via da nu se stenta i omeni a impiegar.
Quel che mi ve offerisse, xe molto e xe seguro;
Quel che podè sperar a Napoli, xe scuro.
Concluderò coi versi che el messaggiero Alete
Dise al canto segondo, stanza sessantassete:
«Ben gioco è di fortuna audace e stolto,
«Por contra il poco, e incerto, il certo e il molto.
Torquato. Amo la patria antica; quella amo, ov’io son nato:
Ma in forestier paese finor mi volle il fato.
Parea che la fortuna fosse per me ridente,
Invitommi alla Corte almo signor clemente;
Venni a servir, compito il quarto lustro appena;
Tenero al piè mi posi dura servil catena,
Che sembra aver gli anelli d’oro massiccio e bello,
Ma ferro è la materia impaniata d’orpello.
Fui fortunato un tempo, assai più che or non sono.
Seco guidommi il Duca in Francia a Carlo nono,
E quel monarca istesso, dicolo a mio rossore,
Segni mi diè parecchi di clemenza e d’amore.
Or non son quel di prima: lungo servir m’acquista
D’odio ingrata mercede, miserabile e trista.
Ciò ad accettar mi sprona il ben che viemmi offerto;
Ma se l’offerta accetti, sono tuttora incerto.
E a chi ragion mi chiede, altra ragion non dico:
Qui mi tien, qui mi vuole, fiero destin nemico.
Tomio. Diseme, caro amigo, xe vero quel che i dise,
Che Torquato in Ferrara abbia le so raise?
Torquato. Signor, non vi capisco.
Tomio. Ve la dirò più schietta.
Xe vero che gh’ave qua la vostra strazzetta?
Torquato. Il termine m’è ignoto.
Tomio. La macchina, el genietto.
Gnancora? Che ve piase un babbio, un bel visetto.
Torquato. Basta così, v’intendo. Chi è quel, saper vorrei,
Ch’esaminar pretende sino gli affetti miei?