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270 ATTO QUINTO
Voi di lasciar giuraste l’ingrata in abbandono;

Se debole voi siete, cieco qual voi non sono.
Rinaldo. Non so che dir, ragione parla in voi, lo confesso.
Riccardo. Non avvilite, amico, l’onor del nostro sesso.
Donna superba ingrata abbia un’egual mercede.
Rinaldo. Ma se pentita fosse...
Riccardo.   Non merita più fede.
Rinaldo. L’ultima prova almeno...
Riccardo.   Il lusingarsi è vano.
Già delle due nipoti tengo la sorte in mano.
Ecco due fogli, in cui d’entrambe ho stabilito:
La strana abbia il ritiro, la docile il marito.
Testè per donna Rosa segnai colla mia mano
Le nozze fortunate di un principe romano.
Ella nol sa per anche, ma lo saprà, e son certo
Che lieta potrà farla un giovane di merto.
Ricco, nobile, dotto, che l’ha veduta e l’ama,
E palesar mi fece da un cavalier sua brama.
Questa, che ha cuor gentile, avrà lo sposo allato,
L’altra diman fia chiusa: lo dico, ed ho fissato.
Compatitemi, amico, se strano a voi mi rendo;
Col mio rigor giustissimo vi giovo, e non vi offendo.
V’inganna, vi seduce amor protervo e rio.
Ritornate in voi stesso, non vi pentite. Addio.
(s’avvia verso la porta del suo palazzo, per la quale entra)

SCENA V.

Don Rinaldo solo.

Misero me! son pieno d’affanno e di rossore.

Saggio l’amico parla, ma non s’appaga il core.
Che dirà donna Livia dell’incivil mio tratto?
Vorrei giustificarmi, vederla ad ogni patto.
Ma il mio dover lo vieta. Chi può, così dispone.
Misera! in un ritiro andrà per mia cagione?