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L'AVARO | 417 |
Ambrogio. Sono sempre ai vostri comandi.
Cavaliere. Addio, mio amatissimo don Ambrogio. (lo abbraccia)
Ambrogio. Sì, con tutto il cuore. (lo abbraccia)
Cavaliere. (La sa lunga il vecchio, ma non ha da fare con ciechi.) (da sè)
Ambrogio. (Eh! ci vedo del torbido, ma sono all’erta). (da sè)
Cavaliere. (Avviserò donna Eugenia). (da sè)
Ambrogio. (Che cosa fa che non parte?) (da sè) Signore, avete qualche cos’altro da dirmi?
Cavaliere. Sì, una cosa sola; e vi lascio subito. Sentite in confidenza, che nessuno ci ascolti. Siete un volpone di prima riga. (nell'orecchio) Servitore divoto. (con un poco di caricatura)
Ambrogio. Padrone mio riverito. (facendo lo stesso)
Cavaliere. La riverisco divotamente. (come sopra, e parte)
SCENA X.
Don Ambrogio, poi don Fernando.
Ambrogio. Vada pure, ch’io l’ho nel cuore. A me volpe? Per quel ch’io vedo, fra lui e me siamo da galeotto a marinaro. Che ti venga la rabbia: come ha preso la volta lunga per attrapparmi! Pareva a principio, ch’ei fosse l’uomo più generoso del mondo, e si è scoperto alla fine un avaro peggio degli altri. Io non son tale; l’avaro non è quegli che cerca di mantenersi quel che possiede, ma colui che vorrebbe avere quel che non ha.
Fernando. Signor don Ambrogio...
Ambrogio. È venuta la posta?
Fernando. Si signore. Ho avuto lettera da mio padre...
Ambrogio. E quattrini?
Fernando. E quattrini ancora.
Ambrogio. Dunque principio fin da ora ad augurarvi il buon viaggio.
Fernando. Ed io a ringraziarvi...
Ambrogio. Non vi è bisogno di cerimonie. Tenete un bacio e andate, che il cielo vi benedica.