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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1912, XIV.djvu/400

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392 ATTO TERZO
Fe’ dire a lei don Berto, che ora non si poteva

Ricever le sue grazie. (a don Ferramondo)
Isidoro.   E che pranzar voleva.
(a don Ferramondo)
Ferramondo. Il servo tal risposta non fece all’imbasciata,
Nè un cavalier mio pari l’avrebbe meritata.
Don Ferramondo io sono, signor di Belvedere,
Fra le truppe alemanne capitan granatiere.
Conobbi donna Placida sin quando avea marito;
Se vengo a visitarla, non so d’essere ardito.
L’ora del mezzogiorno non parmi ora indiscreta,
Pure il costume vostro seguir non vi si vieta;
Ma non vi si concede meco un trattar villano.
Isidoro. Signor, con chi parlate?...
Berto.   (Zitto, ch’è un capitano).
(piano a don Isidoro)
Ferramondo. Se negli amici vostri vi è tanta indiscrezione,
Saprò sopra di loro pigliar soddisfazione.
Gente malnata e vile sa poco il suo dovere.
Anselmo. Signor, non vi adirate...
Berto.   (Zitto, ch’è un granatiere).
(piano a don Anselmo)
Ferramondo. Cerco di donna Placida. (a don Anselmo)
Anselmo.   A me? non ne so nulla.
Berto. Sarà di là, Signore. (accenna la sua camera)
Anselmo.   (No, che vi è la fanciulla).
(piano a don Berto)
Isidoro. Volete donna Placida? di là potete andare.
(a don Ferramondo, accennando la camera)
(Lasciate ch’egli vada, che andremo a desinare).
(piano a don Berto)
Ferramondo. Lo sa ch’io la domando?
Berto.   Le farem l’imbasciata.
Isidoro. Può andar liberamente, che già non è occupata.
Anselmo. Un cavalier bennato, che ama la civiltà,