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326 ATTO QUARTO
Credete a un cuor sincero, credete a chi v’adora.

Pende da voi mia morte, pende da voi mia vita,
A un misero che langue, deh non negate aita.
Fatelo, s’io nol merto, fatelo per virtù.
Pietà, pietà, mia cara
.... Oimè, non posso più.
Armidoro. Ma vi veggo agitata, e1 di sapere io bramo
La cagion che vi turba...
Contessa.   Signore, io non vi chiamo.
Armidoro. Confidate a un amico...
Contessa.   No, con vostra licenza.
Armidoro. Ma io voglio saperlo.
Contessa.   Ma questa è un’insolenza.
Armidoro. Non ho cuor di partire.
Contessa.   Andate lì, e sedete.
Armidoro. (E un po’ lunga, per dirla). (toma a sedere e leggere)
Contessa.   (Dunque del capitano
Finora internamente mi son lagnata invano.
È ver che ingelosirmi si era teste provato,
Ma io, per dir il vero, l’eccitamento ho dato.
Ah dovea prevedere, senza scaldarmi tanto,
Che una dolce parola sciolto averia l’incanto.
Perchè strugger la mente in macchine e raggiri,
Se vincer lo poteva un sol de’ miei sospiri?
S’io volea vendicarmi, bastavami per gioco
Ch’io languir lo facessi, e delirare un poco.
Questa viltà di spirito oltraggia il mio potere;
Ecco per un capriccio perduto ho il Cavaliere.
Ma son a tempo ancora; sì, rimediarvi io voglio;
Vo’ rispondere intanto del capitano al foglio.
Non voglio a dirittura concedergli il perdono;
Sappia che me ne offesi, e che sdegnata io sono.
Ma un raggio di speranza trovi nel foglio mio;
S’egli superbo è in questo, sono superba anch’io).
(si pone per scrivere)

  1. Ed. Zatta: or.