Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1926, XXIII.djvu/352

Da Wikisource.
348 ATTO QUINTO
Carino.   Darovvi aita,

Perr avermi infedel resa la sposa?
D. Giovanni. Vendica i torti tuoi. Non ti chied’io
Vita, nè libertà; morte ti chiedo.
Svenami per pietade. Io sono stanco
D’attender più della mia vita il fine.
Carino. Siete voi disperato?
D. Giovanni.   Sì, lo sono;
Per me non vi è più scampo. È la pietade
Terminata per me. Sono crudeli
Meco gli Dei, se Dei vi sono in cielo.
Carino. Non parlate così. Vi sono i Dei;
E crudeli non sono. A lor volgete
Con umil cuor le calde preci, e i voti
E il soccorso verrà.
D. Giovanni.   Che Dei, che voti?
Che sperare poss’io dal sordo cielo?
Già per lunga stagion perduto ho l’uso
Di favellar coi Numi.
Carino.   (Il cuor mi trema).
Ma lo stato in cui siete, almen vi faccia
In voi stesso tornar. Da chi potreste,
Se la niegan gli Dei, sperare aita?
Pentitevi di cuor. Via, don Giovanni;
Se siete cavalier, non disprezzate
D’un pastore il consiglio. E forse questa
L’ultima volta che per me vi parla
La celeste pietà. Mirate il cielo...
D. Giovanni. Ah, che piuttosto invocherò d’Averno
Le terribili furie. Esse verranno
A lacerarmi il seno. A un disperato
Pietà non giova, inutile è il consiglio;
Deggio morir, ma venga seco a trarmi
Una volta la morte. Iniquo fato!
Empia sorte! Crudel, barbara madre,