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1806 nel teatro filodrammatico ai Ss. Filippo e Giacomo (cod. Cicogna 3367, già di Gio. Casoni, presso il Museo Civico), ai 10 e 11 dicembre 1820 a S. Benedetto (comp. Modena: Giorn. dei teatri comici, in Bib.ca teatrale ital. e straniera), ai 23 settembre nel 1828 teatro Gallo a S. Benedetto (comp. Modena: Gazzetta Privilegiata di Venezia), agli 11 febbraio 1832 a S. Luca (comp. Modena e soci, I. c.). Nel 1823 era nel repertorio della compagnia Reale Sarda, a Torino (v. Costetti, La Comp. Reale Sarda ecc. Milano, 1893, p. 34). “Grande nella parte di Machmut” riusciva Giacomo Modena (Rasi, I Comici Italiani, II, 504). Ultimo, o fra gli ultimi interpreti, fu Luigi Duse.

Contro la Sposa Persiana sfogò a lungo i suoi sarcasmi e le sue contumelie il più accanito avversario del commediografo veneziano, il conte Carlo Gozzi, proprio l’autore delle Fiabe! Qua e là nei suoi versi satirici (v. sonetti berneschi, Canto Ditirambico, Canto della Sposa Persiana, I Sudori d’Imeneo poemetto ecc.), nei suoi libelli in prosa, nel Ragionamento ingenuo preposto alla stampa delle composizioni teatrali, nella Più lunga lettera che sia stata scritta (1801) in fine delle sue Opere edite ed inedite, e nel tomo primo delle Memorie inutili, ci colpisce il ricordo di Ircana. Il conte Gozzi insorge sopra tutto in nome della morale, contro le “immodeste espressioni” e gli “osceni equivoci” di Curcuma (Opere, t. XIV, p. 121. Confessa nella prefazione il Goldoni, v. qui a pag. 120, di aver purgato “di qualche equivoco” la sua commedia, prima della stampa); e non vede nella Sposa Persiana “che un cattivo specchio di poligamia pemizioso, e che un’oppressione della virtù” (t. I, p. 55). Caratteristico il Canto camescialesco della Sposa Persiana, che comincia: “Io son Fatima Persiana, - Sposa a Tamas, Finanziere, - Chiedo panni, e pane, e bere, - S’io non vo’ far la p...” (t. VIII, ed. Colombani, 1774, pp. 234-237). Anche cotesto linguaggio non è purgatissimo. Nè “gridava” meno, a detta del conte Gozzi, contro questa e le altre “commedie romanzesche” (le Pamele, il Filosofo Inglese, la Scozzese) Giuseppe Baretti, “come di cose piene di assurdi, d’immodestie, incoltissime, e scritte con un goffa stomachevole locuzione” (Opere, t. XIV, p. 85). Altri, come Giulio Trento (Della Commedia, Trevigi, 1768, p. 53) e come l’autore del Teatro, diario mensuale per il mese di febraro 1788 forse lo stesso Trento), più giustamente trovavano sforzato e inopportuno il riso comico di Curcuma. Più tardi il Menegazzi trovò da che dire dei costumi persiani “rappresentati così superficialmente” che “appena si riconoscono per quelli ch’esser dovrebbono” (Della vita e delle opere di C. Gold., Milano, 1822, p. 131. Per contro il Pignatorre, un quarto di secolo prima, lodava enfaticamente le pitture americane e persiane del nostro commediografo: Elogio a C. Gold., Venezia. 1802, pp. 17 e 38); e con un linguaggio violento “che ricorda assai da vicino Carlo Gozzi,” come dice la Ortiz (I. c., pag. 64), esclama: “Che sono eglino mai quegli accidenti pieni di garbuglio, que’ padri che congedano i figli e le figlie loro con lunghi proverbj, che ora irragionevoli, ora bestiali, ora deboli, minacciano, strepitano, si sottomettono: quelle schiave che, in un serraglio di Persia ove regna il dispotismo solo, la fan da padrone, snudano pugnali, vogliono uccidere il proprio Signore, poi mutate senza ragione e fuor di natura diventano umili e pazienti, poi di nuovo inviperiscono; quelle