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IRCANA IN JULFA 343
Dopo promesse tante, dopo lusinghe e vezzi,

(A’ quai, uomini ingrati, siete pur troppo avvezzi),
Dal genitor, che impero unir seppe al consiglio.
Sposa guidarmi in faccia lasciò sedursi il figlio.
Taccio di lei quell’arte, onde gli avvinse il cuore;
Taccio le smanie estreme del mio schernito amore.
Dicoti sol, che armato di ferro il braccio forte,
Primo al suo destinava, indi al mio sen la morte.
Fui scoperta, sorpresa; sdegnossi il mio tiranno;
La mia rival si valse d’un amoroso inganno;
E in mio favor parlando con simulato affetto,
Vinse il cuor dello sposo, lo vinse a mio dispetto.
Al genitor sdegnato per me chiese perdono;
Scaltra, ottenne al mio scampo la libertade in dono.
Sul momento confusa, smanio, peno, m’adiro:
Per parlar non ho voce. Parto con un sospiro.
Vecchia, che la mia fuga prima avea concertata,
Rapite a me le gioje, sola mi ha abbandonata;
E Bulganzar, che seco fuor m’attendea soletto,
Trassemi, non so come, fuor dell’amabil tetto.
Qual coi sensi sopiti opra taluno, e dorme,
Dietro condur mi lascio della mia guida all’orme:
E d’Ispaan mi trovo fuor delle chiuse porte,
Senza saper s’io fossi viva, o in braccio di morte.
All’apparir del giorno seppi dal mio custode
La fuga avvalorata dall’oro e dalla frode.
Seppi che la rivale avea contribuito,
Perchè alla fuga il varco non fossemi impedito.
Cento immagini tetre di sdegno e di vendetta
Mi si destaro in mente; ma, oimè, che far soletta,
Misera, abbandonata, poteva in tal periglio?
L’ira alfin nel mio seno cedè il loco al consiglio.
Stanca, abbattuta, oppressa, volgomi al mio custode
Abbi pietà, lui dissi, che n’avrai merto e lode.
Vendimi, se fia d’uopo, agli onorati Armeni,