Mia preda è quella schiava; che mi abbedisca, io voglio.
Di femmina non uso a tollerar l’orgoglio.
O mi segua, o si sveni.
D. Alonso. Che pretensione ardita!
Io l’onor suo difendo, difendo la sua vita.
So che il novel cimento gonfia i vostri pensieri,
Voi però non vinceste; vinsero i miei guerrieri.
Lo so che profittando del colpo fortunato.
Contro di me speraste il popol sollevato,
E che volgeste in mente l’empio disegno insano
Nelle terre acquistate di rendervi sovrano.
Ma su ciò v’ingannaste. I nostri Lusitani
Non son, quale voi siete, sì barbari e inumani.
Venner meco all’impresa sotto i reali auspici,
Saran, se persistete, saran vostri nemici.
Ritornate in voi stesso. Amico io vi ragiono,
E i passati trasporti mi scordo, e vi perdono.
D. Ximene. Che perdon? di perdono meco si parla invano.
In voi per atterrirmi non veggo il mio sovrano.
Per compensare i torti questa è l’unica strada.
Dee le nostre ragioni decidere la spada.
D. Alonso. Di private contese or non è tempo; andate.
Donn’Alba. Come? German, la sfida voi di accettar negate?
L’onor del sangue vostro può ritardar l’impegno
Di punir colla spada quel mancatore indegno?
D. Alonso. Apprendete, o germana, che il cuor di un cavaliere
Dee nelle circostanze distinguere il dovere.
Può cimentar se stesso, quando è in libero stato;
Dee servire al sovrano, qualor n’è incaricato.
Se don Ximene abusa del grado a lui concesso.
Del mio monarca in nome posso punirlo io stesso,
Non perchè don Alonso seppe insultar l’audace,
Ma qual perturbatore della pubblica pace.
Or pei pubblici torti deggio punire i rei;
Saprò punire un giorno e vendicare i miei.