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la danza d’una “devadasis„ 113

ve come un ronzìo, come un aliare di libellule e di falene. Nessuno canta, ma tutti, musici e spettatori, sillabano a mezza voce i versi del poema sacro che la bajadera ripete per conto suo, come per rammentarsi o per intesa. Ma più nulla si sente, più nulla si vede che la maschera ovale, il sorriso triangolare, gli occhi già troppo lunghi, prolungati dal bistro fin sotto la benda dei capelli compatti, lucenti come se scolpiti in un ebano raro; una maschera che sembra staccarsi dalla persona, far parte a sè come un’evocazione spiritica; e spettrali veramente sembrano le mani, come quelle che apparivano volanti nelle leggende bibliche e scrivevano sui muri la condanna dei tiranni. Le mani di questa Devadasis, all’estremità delle braccia immobili, s’agitano con un movimento vertiginoso di rotazione e di distorsione che sembra sconvolgere ogni legge anatomica; hanno — mi fu detto — un officio importantissimo: significa disegnare lo scenario e le didascalie. La sdegnosa povertà dell’allestimento teatrale di Shakespeare; il cartellino con the forest, the king’s house;