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CAPITOLO XX

Di male in male peggiore.

Giunse mio fratello Francesco, e colla lusinga di conciliare de’ beni non suscitai che de’ mali.

All’arrivo del fratello dal Levante parve che rinascesse la serenitá famigliare, e mi rallegrai. Fui sollecito ad informarlo con ingenuitá delle circostanze e de’ miei desidèri sul comun bene. Comprese egli benissimo le mie dirette mire. Giudicai ben fatto ch’egli partisse per la campagna nel Friuli e s’impossessasse delle rendite da quella parte, ch’erano il maggior sforzo di tutte le altre nostre entrate, e vicine alla ricolta. Credei che non si dovesse usare delle asprezze, ma che si dovesse poco a poco levare gli abusi e i nascondigli delle disposizioni.

Concertammo di non levare il titolo di capo della famiglia al fratello Gasparo, di cercare tutti i vantaggi possibili sulle rendite, ma di passare alle sue economiche mani i ricavati di quelle, ond’egli sostenesse la famiglia e tenesse un esatto registro del riscosso e del speso. Inculcammo per risvegliarlo dal suo letargo, e rispose da risvegliatissimo e risoluto di aderire. Per raddolcire e coltivare gli animi pregammo la madre a volersi assumere delle ispezioni famigliari, la cognata ad assumensene delle altre, la famiglia tutta a contribuire alle regole, alla pace, alla buona armonia.

Tutti questi passi, che imbecilmente ci parevano belli per calmar gli animi e ridurli all’unione, furono accolti apparentemente con una contentezza universale.

La cognata mostrò una rassegnazione esemplare, ma (ohimè!) ella disse che aveva un suo libro di conteggi tenuti per molti anni d’una parte d’amministrazione, e che per sua quiete ella ci pregava d’una firma come di quitanza e di specie di ben operato, dal medesimo suo marito e dagli altri tre fratelli.