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CAPITOLO XXXI

Corso lungo e guarigione d’una malattia. Dispareri de’ medici. Una mia sorella vuol esser monaca. Riflessi morali fuori di moda. Principio di scaramuccie letterarie. Altre minaccie.


Con tutti i disturbi miei, non mai disgiunti dalle giornaliere mie applicazioni indicibili sulla nostra favella purgata, sulle belle lettere e spezialmente sulla inconsiderabile poesia, ero in una salute perfetta. Improvvisamente, una notte, de’ sbocchi violenti di sangue dal petto vennero ad avvisarmi che la sanitá ne’ mortali è appiccata ad un fragilissimo filo.

De’ salassi, de’ cibi pitagorici e una frugalitá nel mio vitto, in cui, oso dire, pochi fuori di me sarebbero capaci d’usare una lunga perseveranza simile alla mia, e il mio poco temere la morte, mi fecero credere d’avere riacquistata una mediocre salute.

Parvemi d’essere in grado di poter riporre la fratellanza, che restava con me, nella casa paterna. Chiesi questa casa, ch’era stata appigionata da piú di cinqu’anni alla dama contessa Ghellini Balbi, con la dovuta civiltá; ed ella gentilmente condiscese al mio buon desiderio, provvedendosi d’altra abitazione nella contrada di Santo Agostino.

Ammobigliai ed accomodai con la possibile decenza il nostro antico nido, che fu ben tosto da noi tre fratelli abitato.

Avvenne allora che invitai ad uscire dal monastero la sorella minore ed a venire alla mensa de’ suoi fratelli, portandomi io in persona a Pordenone, dov’ella era, a far quest’uffizio.

Fosse per debolezza, per seduzione umana o per ispirazione divina, quella buona ragazza resistí a tutte le mie preghiere, a tutte le mie collere, a tutte le mie minaccie, che la volevano fuori da quel convento; ella chiese con una santa ostinazione d’essere lasciata nella sua carcere e d’essere soccorsa a poter rimanere per tutto il tempo della sua vita nella soavitá di quella beata stia di vergini.