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parte prima - capitolo xxxi 185

avversario, che gli hanno dato in progresso di tempo de’ sconsigliati e molesti pensieri.

La seccatura delle recidive di quella mia infermitá, che durarono due anni e mezzo assalendomi quando meno m’aspettava, averebbe sbigottito e fatto disperare della vita ogni persona meno stupida di me.

Contro al consiglio di parecchi medici, i quali mi protestavano con gli occhi spalancati e dinotanti un notabile orrore che la violenza del cavalcare una bestia mi averebbe riscaldato, riaperte delle vene e le piú grosse del petto ed affogato nel sangue, m’appigliai al suggerimento del dottore Arcadio Cappello, per incontrare le sciagure funeste o le fortune pronosticate da’ signori fisici.

Il Cappello ebbe ragione. Un vitto regolato, un disprezzo del male, un esercizio a cavallo per un anno tre o quattr’ore ogni giorno, mi guarirono perfettamente. Sono scorsi venti e piú anni ch’io non vedo indizio di quella malattia, che non ho alcun indizio d’averla avuta, e che ho tutti gli indizi di dover dar ragione al dottore Arcadio Cappello.

Non le dissensioni famigliari, non i molesti pensieri, non il grave peso de’ debiti assunti a pagare, non le battaglie forensi, esterne e domestiche, non le mortali infermitá fastidiose e lunghe, poterono raffrenare in me lo sfogo d’un quotidiano poetico capriccio e della mia passione ridicola per le belle lettere.

E perché in quel tempo s’erano accese delle controversie letterarie in Venezia sulla colta filologia e sulle opere di spirito dell’Italia (delle quali controversie darò un cenno in compendio ne’ seguenti capitoli), sputando a sgorghi il sangue delle mie vene, averò scritti ben cento sonetti scherzevoli e urbanamente satirici e un buon numero di opuscoli, in difesa de’ maestri antichi scrittori e della coltura di scrivere, e contro alle opere teatrali e poetiche de’ signori Chiari, Goldoni e d’altri, facendo ridere colla lettura de’ miei ragionevoli faceti capricci gli amici che mi visitavano e il medico ed il chirurgo.