Pagina:Grammatica italiana, Fornaciari.djvu/32

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xxiv note

nell’uso del popolo. Si confrontino, p. es. móglie, mulíebre; chièsa, ecclesiástico; séte, sitibóndo; sélva, silvèstre; fióre, flòrido; ghiáccio, glaciále; ecc. Spesso si è introdotto il solo derivato, mancando affatto la voce primitiva, p. es. pueríle e viríle, mentre non abbiamo nè pùero, nè víro. Spesso una medesima voce latina è passata in italiano sotto due forme, l’una alterata e guasta dal popolo, l’altra vicina al latino, perchè formata dagli scrittori; p. es. piève e plèbe; piùvico antiquato, e pùbblico; chiòstro e cláustro, claustrále; bièco e oblíquo; piègo e plíco; fièvole e flèbile; e tante altre, alcune delle quali puoi vedere in questa Grammatica (Parte I, cap. iii-vi).

5 Intorno alle lunghe ed accese dispute che fino ab antico si agitarono e tuttora si agitano in Italia sulla natura e il nome della nostra lingua, volendola chi tutta toscana o fiorentina, chi formata dagli scrittori d’ogni parte d’Italia, puoi vedere le opere del Trissino, del Tolomei, del Varchi, del Muzio, e di altri nel sec. xvi; del Cesarotti, del Napione, del Monti, del Perticari, del Biamonti, del Manzoni, del Gelmetti, del Pasquini e di tanti altri ne’ tempi a noi più vicini. La questione fu anche riepilogata, poco fa, dal prof Caix nel vol. III dell’Italia di Carlo Hiilebrandt, pag. 121-154.

6 Si potrebbero citare molti esempii delle incertezze provenute nella grammatica, dall’aver messo il supremo criterio negli scrittori sì antichi come moderni, senza riconoscere un uso vivo e determinato. Il libro di Daniello Bartoli Il torto e diritto del non si può, che cerca legittimare forme anche plebee, perchè usate da buoni autori, ne fa fede abbastanza. Se ne risentono però anche le grammatiche moderne: ci è stato taluno che voleva rimettere in uso i modi plurali i scògli, de’ stivali (ignoti ai Toscani ed alla grande maggioranza degli scrittori) per la ragione che spesso si trovano ne’ poeti, e che non danno cattivo suono come i singolari corrispondenti. C’è chi ammette, anche in prosa, farèbbono, dirébbono e fino anche fóssino. Alcuni danno per regolare altrui per altri semplicemente, e mettono davanti da o di in riga con davanti a. E quante forme poetiche o eccezionali non si pongono accanto a quelle dell’uso, o tacendone la differenza o solo timidamente accennandola? E quante eccezioni disusate in Toscana, non si danno ancora come legittime, specialmente nei plurali in a di certi nomi, e nelle flessioni de’ verbi? Non dico con questo che tali forme non si possano usar mai, specialmente dove la convenienza nello stile o il bisogno stesso di varietà lo richieggano; ma dico bensì e sostengo che una buona grammatica deve segnare la via maestra, e le deviazioni principali accen-