Pagina:Guerrazzi - L'asino, 1858, III.djvu/107

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un po’ mi dicessero in che e come avrebbesi a biasimare prosuntuoso negli umili quel divino entusiasmo che nei potenti crea maraviglie! Io per me li giuro, o re, che dove avessi eletto girmene in campo ad osteggiare i nemici odiatissimi della Patria mia avrei chiarito il mondo se io sapessi al bisogno tirare più calci che ragli, o per lo meno ragli quanto zampate: arte che a me parve non avesse bene appreso la gioventù bellicosa de’ miei tempi; anzi memore della virtù romana e dei precetti di cotesta egregia disciplina io non sarei tornato se non vincitore; più della morte assai aborrendo udire col fischio della sferza mescolata la bestiale minaccia e lo scherno roditore delle viscere e contemplare la generazione frivola e scellerata delle miserie della Patria farsi letto, dove dorme un sonno d’infamia; no, quanto è vero che Dio vive non sarei tornato, imperciocchè nella guerra che un popolo combatte per francare le sue case e le sue tombe dalla servitù straniera bisogni vincere o morire; la ferocia è santa; la morte libertà; e chi altro pensa, con la vergogna abbia il danno. Umile fui e sono; però umiltà diversifica da abiezione, e ciò tanto meglio si chiarisce quante volte pongasi mente, come umilissimi e modesti piacesse sempre mostrarsi ai virtuosi. Assai fu noto lo esempio di Epaminonda presso