Pagina:Guglielminetti - La porta della gioia, Milano, Vitagliano, 1920.djvu/25

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la porta della gioia

egli tacque assorto. Cercò frivoli argomenti, ma non gli riuscì di costrurre una sola frase. Contò tutti i lumi che si specchiavano nel mare fino al rosso fanale del molo. La luna sorgeva come una larga medaglia incandescente e l’illusione che uscisse dall’acqua era così viva che, quando fu tutta emersa, egli attese di vederne scivolare qualche stilla. Al fondo dello scoscendimento dove l’acqua era più cupa, una barca peschereccia o una feluca d’innamorati vogava verso il largo, e nello sciacquìo si rifletteva un pallone veneziano che nell’azzurro verdognolo era come la brace d’una sigaretta gittata in una coppa di champagne.

— Eccoci.

Dall’Hôtel venivano le strofette disinvolte di una parigina canzonetta di Darius, impoverita dalla impacciata interpretazione d’una matura signorina. Investita alle spalle dal chiarore intenso delle lampade ad arco, la figura agile di Maria Farnese si delineava come un’ombra materiata di veli.

— Non entrate? Vi offro un rinfresco, — diss’ella con una punta d’ironia. — Nel ritorno, caro avvocato, vi siete acceso in una perorazione così fervorosa che vorrei placare la vostra arsura.

— Siete arguta, amica bella. Ma la mia arsura è ben altra.

E si curvò a baciarle la mano.