Pagina:Guglielminetti - La porta della gioia, Milano, Vitagliano, 1920.djvu/37

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la porta della gioia

alla propria domanda, tutto occupato dal corruccio rabbioso che gli cagionava l’ostinata disdetta al gioco, si avvicinò ad una delle alte finestre spalancate sul mare e scaraventò nel buio la chiave medioevale, pensando con ira:

— Ecco ciò che mi portava sfortuna!

La fervida passione d’amore che da tanti giorni lo tormentava taceva in quel momento, premuta, oppressa, soffocata dalla brutale passione del gioco. Il suo desiderio fu simile in quell’attimo alla fiamma di una lampada votiva su cui s’abbatta un colpo impetuoso di vento: vacillò, impallidì, parve spenta dinanzi alla dolce immagine profana per cui ardeva consumandosi.

Lucio D’Almea tornò coi nervi frementi al tavolo della roulette, e si disponeva a sfidare ancora la sorte quando l’impiegato dichiarò:

— La partita continuerà domani sera, alle nove.

— Ma come? È già finito?

— Sì. A mezzanotte si chiude.

Egli si avviò con altri verso l’uscita, ma si fermò sulla soglia. Nella veranda una pendola imitante il suono dell’abbazia di Westminster battè dodici colpi. Ad uno ad uno egli li contò, ascoltò il malinconico arpeggio che li seguì e rimase immobile, coi pugni sprofondati nelle tasche e i denti serrati sotto la mascella a fissare la luna grande, accesa, lucida come una

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